Via col vanto

[di Ernesto Giacomino]

Mi pare non si sia mai visto che una squadra di calcio, per attirare tifosi, anziché mostrare come gioca bene lei mandi filmati in cui evidenzia come giochino male le altre. Oppure che un cantante provi a vincere Sanremo sedendosi in platea a fischiare le esibizioni degli altri concorrenti.

Voglio dire, fateci caso: le elezioni politiche, a qualunque livello – e in qualunque contesto territoriale – sono di fatto l’unica “gara” in cui il giocatore, prima ancora di dare conto delle proprie qualità e capacità, punta prioritariamente a denigrare quelle degli altri. Fenomeno, peraltro, che non si riscontra in nessun altro tipo di decisione ai voti, che siano i talent televisivi o l’elezione di Miss Canotta Sdrucita al lido La Blatta.

Sempre questa storia delle influenze americane, immagino: è cosa stranota che negli Usa la prima spesa elettorale d’un qualunque candidato è quella per assumere eserciti d’investigatori per trovare macchie ed episodi scomodi nella vita e nella carriera dei rivali. Oppure, se l’avversario più temibile è proprio il presidente uscente, s’attiva col più facile (ed economico) metodo di attaccarlo su tutto quello che non ha fatto durante il suo mandato.

Com’è o come non è, fatto sta che ogni volta mi ritrovo a chiedermi: ma io, il mio pensiero, le mie idee politiche, siamo davvero così irrimediabilmente condizionabili e malleabili? Cioè, basta davvero che un tizio su un palco mi dimostri che è meno scarso degli altri, per essere automaticamente il mio beniamino? Davvero un suo semplice elenco di mancanze, inefficienze e cose che altri non faranno, basterà a convincermi che ora ci penserà lui, a risolvere tutto?

No, o non esattamente. Ci sta che chi ha maggior accesso agli atti amministrativi, o maggiori competenze in diritto degli Enti locali, possa spiegarmi dettagli che mi sfuggivano. Ci sta che chi conosce meglio determinati candidati – perché magari prima s’era alleati, per dire, o semplicemente per aver frequentato per un po’ lo stesso ambiente – possa avere un quadro più chiaro delle sue effettive potenzialità. Ciò che non ci sta, però, è l’esaltazione di quel “prima di me, il vuoto” che ormai s’è soliti propagandare dai palchi. Non c’è mai niente da cui ricominciare, una qualcosa di già abbozzato da migliorare, un’iniziativa avviata da portare a termine. 

Ad ascoltarli, insomma, Battipaglia va riscritta ogni volta; è un documento word senza la funzione “salva con nome”, che da novant’anni a ogni uscita dal programma perde quel poco di già fatto. Nella peggiore delle ipotesi perché non andava fatto; nella migliore, perché fatto male. 

Quanto gioverebbe, allora, un approccio più collaborativo? Quanto svetterebbe – per umiltà e credibilità – un candidato senza velleità da demolitore, da trasformatore del tutto in cenere in vista della resurrezione?

Siamo gente semplice, e abbiamo bisogno di guide semplici. Qualcuno che provi a convincerci del suo, di valore, piuttosto che dei demeriti del resto del mondo. Qualcuno agganciato alla realtà, che lasci stare la bacchetta magica e dica: “Io non lo so, che ci troverò nel Palazzo: fatemici arrivare, così apprendo e riferisco”.

Perché poi, va detto: lo stesso tempo che si spreca a progettare cose nuove diventa parecchio più fruttuoso, se lo si dedica a riparare quelle vecchie. 

12 giugno 2021 – riproduzione riservata

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