Promessa spesa

[di Ernesto Giacomino]

Definitivamente naufragata, pare, l’esperienza battipagliese del centro commerciale naturale. “Unione di gruppi di esercenti ubicati in una planimetria specifica, uniti con lo scopo di creare, nella loro diversa tipicità, servizi utili e strategie comuni atte a potenziare le attività commerciali, per fronteggiare la grande distribuzione e i centri commerciali in continua espansione sul territorio nazionale”. Questa è, grosso modo, la definizione che si trova sui dizionari d’economia e sui siti Internet specializzati. Il che parla, né più né meno, di quello che si fa da sempre. Con o senza placet politico-amministrativo, per intenderci. Con o senza presidenti, cariche sociali, notifiche e verbali d’assemblea. Fin dalla notte dei tempi, da quando il commercio si faceva sulle palafitte e si barattavano pellicce di mammuth e pesci essiccati, i negozianti hanno messo in atto politiche di vario tipo per non pestarsi i piedi con gli esercizi limitrofi, prescindendo dalle categorie merceologiche esposte in vetrina. Deontologia di settore, più che altro. Strategia a fini mutualistici. La consapevolezza che, a farsi la guerra sugli spiccioli, in tasca restava poco. Se non tratto jeans ti mando da chi li vende, e quello t’indirizza a me per l’acquisto di un profumo. Se compro l’albero di Natale per addobbarmi il marciapiede, lo compriamo in dieci e ci facciamo fare un maxi sconto sul prezzo. Concordiamo la data di partenza dei saldi, cosicché gli acquirenti fanno un’unica tappa e non li sfianchiamo di trasferte. Meglio ancora: passeggiano in massa, per andare da te passano da me, e viceversa. Diversamente dal mal comune, insomma il ben comune fa un gaudio non mezzo ma sommo.

Non c’è niente di più naturale di una mentalità condivisa, e niente di più innaturale che volerla regolamentare e cartabollare. Ha sempre funzionato, prima. Almeno, cioè, fin quando la sindrome da anglofilia selvaggia non ci ha suggerito d’importare, unitamente a termini tipo new economy, accounting, trade income, anche il concetto di Town Center Management. Direzione del centro della città, per dirla in quest’italiano borghesuccio e coatto che ci ostiniamo a parlare. Allora esce fuori la necessità – politica? – di una personalità giuridica a parte, di organi di vertice, di gente che comanda. Non c’è mai stata, ora serve. Di naturale resta poco, perché è tutto sovraordinato, imposto. C’è chi ordina e chi ubbidisce. E generalmente chi ubbidisce lo fa controvoglia. Per partito preso. Dove non decide nessuno, decidono tutti. Viceversa, prescindendo da una forma di comando che può spaziare dall’austero all’amichevole, passando per il diplomatico, ciò che viene percepito – e non conta se giusto o ingiusto – è tirannia. Un discorso è la gestione della cosa comune, un altro quello della merce privata.

Chi fa lezioni di macroeconomia garantisce che nel lungo periodo il risultato è garantito. Che un centro commerciale naturale, con gli anni, sa contrastare l’egemonia delle mega strutture che vanno via via montandoci sotto gli occhi, dal capannone monomarca esperto di sport ai complessi polifunzionali in cui non solo compri ma giochi, parli, mangi, digerisci, dimagrisci, perisci, ti seppellisci.

Nel lungo periodo, ah sì. I financial tizi, lì, dimenticano che la tavola la si deve mettere ogni giorno. E allora ben venga quest’autorità maxima del centro commerciale naturale, presidenti e vice e quant’altro. Ma solo se hanno testa e fegato di venirsela a discutere con te dal direttore di banca.

12 marzo 2012 – © riproduzione riservata

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