Oltre le celebrazioni | di Lucio Iaccarino

Difficile prevedere il futuro. Economisti e politologi provano a farlo di continuo. I primi, stando alle recenti crisi internazionali, con evidente assenza di risultati, i secondi con abilità e maestria, visto che la politica procede per cicli ventennali, all’interno dei quali succede poco o nulla. La sfida di chi scrive potrebbe allora spostarsi sulle previsioni nel passato rileggendo la storia d’Italia attraverso improbabili ragionamenti ipotetici. Che fine avrebbe fatto lo stivale se Garibaldi fosse scomparso nel 1827 durante uno degli attacchi subiti dal bastimento la Cortese? E cosa sarebbe successo se Silvio Berlusconi nel ’94 non fosse sceso in politica? Domande a cui non vale la pena rispondere, se non in chiave fantastorica o fantapolitica.

Eppure, tra quanti si accingono a ripercorrere la storia del nostro Paese, sono in tanti quelli che rileggono il passato in funzione del tempo presente. Il meccanismo, in realtà, è tipico del ricordo umano. Gli storici sono esseri umani, difficile attendersi da loro un tradimento della propria natura. Figuriamoci dalla gente comune. Le persone tendono a ricordare solo le cose piacevoli rimuovendo dolori e tragedie o a serbare pezzi di memoria individuale utili nel quotidiano, come il numero del pediatra o del geriatra. E ogni volta che nel presente si racconta il passato, si aggiungono e tolgono dettagli, cambiando versione a seconda dell’interlocutore che abbiamo dinanzi, influenzati dalla fase di vita in cui siamo e perché no, dall’umore che ci attraversa nell’istante stesso in cui raccontiamo i nostri vissuti.

Il ragionamento potrebbe apparire contorto e privo di un fine prestabilito ma non tutte le storie volgono al termine. Senza contare che esistono anche storie interrotte. E come metterla per le grandi narrazioni? Non sarebbero grandi storie se fossero prive di un finale. Meglio forse non porsi il problema della fine della storia e riflettere sui cicli e sui ricorsi storici.

La costruzione degli stati nazionali è ricca di spunti. Prendiamo ad esempio la Storia d’Italia, alcuni potrebbero credere che esista un motore della storia nostrana, un’idea o un fine supremo come il compimento della nazione italiana. Altri potrebbero ripensare la storia ancorandola ai vissuti dei singoli, magari anche agli aspetti più minuti e quotidiani dei grandi personaggi. Sarebbe come ipotizzare che il destino dell’Inghilterra e della Seconda Guerra Mondiale siano in buona misura dipendenti dalle capacità di un logopedista australiano nel risolvere i problemi di balbuzie di Giorgio VI. Nel momento in cui ci viene raccontata questa storia, magari attraverso una pellicola di successo, come per Il Discorso del Re di Tom Hooper, cambia il nostro modo di percepire il passato, con ricadute anche sul presente. E le cose peggiorerebbero se fossimo inglesi, forsennati nazionalisti e difensori della razza britannica. In questo caso non avremmo piacere a denudare il nostro regnante dinanzi al mondo rendendolo memorabile, più che per ciò che declama per il modo in cui lo fa, pronunciando il discorso attraverso la sua diversità e nonostante le sue imperfezioni. Ma rappresentando quell’epoca attraverso la balbuzie di Giorgio VI ci tornano più simpatici anche gli inglesi, popolo notoriamente antipatico, salvati dal loro strano humor, sempre primi della classe nella storia europea, primi nella rivoluzione industriale e primi nel parlamentarismo. Se abbiamo dubbi su come debba funzionare la democrazia parlamentare vale la pena guardare alla storia inglese intrisa di bipartitismo e con una forte, nobile e positiva idea di nazione, oltre che di etica pubblica.

Molto diversa la storia italiana, più recente di quella anglosassone e più fragile perché meno rinvigorita dal tempo. Non a caso in occasione delle celebrazioni dei 150 anni dall’unità d’Italia si è scelto di scommettere sul Risorgimento, inteso come insieme di eventi storici che hanno portato al fatidico 1861, anno dell’Unità d’Italia. Mancano all’appello i restanti 149 anni, evidentemente perché privi di una memoria collettiva condivisa. Come se le divisioni e le divergenti interpretazioni cominciassero proprio dall’Unità d’Italia. Come se l’Unità d’Italia fosse la prima pietra per la costruzione di uno Stato labilmente preceduto da un’idea altrettanto forte di nazione. Peggio ancora, se si vanno a rileggere gli storici militanti delle patrie minori. Accade per esempio per la Padania, esistono numerosi contributi che minacciano la memoria del Risorgimento o la reputazione di Garibaldi, mentre l’Unità d’Italia è vista come una sciagura o peggio come la negazione delle entità politiche “naturali” che l’avevano preceduta. Sempre difficile posizionare la verità nella storia e pronunciare l’ultima parola. Persino l’Olocausto è oggetto di vandalismo interpretativo tra i negazionisti, vale a dire tra quanti negano che i campi di concentramento siano mai davvero esistiti.

Time 151 è il tentativo di spostare il tempo dell’interpretazione ben dopo l’Unità d’Italia, provando con gli arnesi delle scienze sociali a scavare in alcune tra le più profonde crepe nazionali del Bel Paese. È lo sforzo intellettuale di rileggere e reinterpretare il passato con gli strumenti del presente, senza tradire le convinzioni di chi scrive e cercando di appassionare il lettore con storie del passato per capire un presente convulso costantemente in crisi in procinto di un cambio di regime.

 Lucio Iaccarino, sociologo e politologo, ha insegnato scienza politica presso l’Università Orientale di Napoli. Blogger e scrittore, ha pubblicato tra gli altri: Napoli bene. Salotti, clienti e intellettuali nella capitale del Mezzogiorno (Roma, 2008) ed Emozioni Primarie (Napoli, 2011). È coordinatore generale di Think Thanks, società napoletana di indagini di mercato e comunicazione (www.thinkthanks.it).

26 settembre 2011 – © Riproduzione riservata

Facebooktwittermail