Tuona la prima

[di Ernesto Giacomino]


E ok, chi ci conosce sa che non posso evitare di accogliere l’esordio letterario di Maurizio Petraglia con quella fierezza “a scrocco” dello zio egocentrico e caciarone a cui nasce il primo nipotino. Contestualmente, però, il fatto di saperne il talento da quando s’era ragazzini gioca a favore di una maggiore obiettività di giudizio, perché scevra di quel fattore sorpresa che poi, si sa, pretende di d’indirizzarti opinioni ed emozioni.

Tuttavia un privilegio, nel parlarne, voglio arrogarmelo: quello di stravolgere la consequenzialità temporale della trama e partire dal mezzo, da un’immagine emblematica che restituisce in poco spazio e tempo un buon pezzo della sostanza e delle emozioni di questa storia: Diego, il protagonista, che sferraglia fischiettante e impolverato per l’Europa in sella a una moto fuori produzione da trent’anni, con la stessa disinvoltura con cui poche settimane sedeva al consiglio di amministrazione di una multinazionale parigina e nei weekend volava in prima classe dalla sua famiglia sul lago di Como. E che, a differenza degli altri motociclisti, per scia non lascia fumo ma i flashback più intensi, belli, struggenti del suo passato. Così da capire che quel viaggio, tra una sbornia di Narince e la scoperta dell’amico architetto passato ad allevare cavalli, non è altro che una restituzione dei suoi ricordi, un po’ ciascuno, a coloro che ci sono rimasti impigliati dentro. Fino a rimanerne con un solo pugno, in mano: quelli che appartengono a Nicola. Da consegnare categoricamente per ultimi: quando, finalmente, lo raggiungerà.

‘Il plurale di poi’ è un lavoro che riesce a far convivere in un’unica narrazione diverse anime letterarie: l’introspezione, il romanzo di formazione, la letteratura di viaggio. Salvo pochissime astrazioni sul profilo dei personaggi, tutta la narrazione si rifà a storie assolutamente vere e vissute, per l’evoluzione delle quali Maurizio Petraglia utilizza – seppure, alle volte, in maniera assolutamente marginale – alcuni alter ego dei protagonisti reali.

Il titolo è tratto da una conversazione tra due amici, contenuta all’interno del libro: ma è anche, contestualizzato nella storia, una chiave di lettura alternativa del concetto di volatilità del futuro, così come dell’affermazione della percezione di più realtà parallele, nel domani di ognuno, ciascuna con una diversa conseguenza per ogni azione del presente, quasi come condizionata da attese e predisposizione di chi la pone in essere.

È una storia, in definitiva, sul come vanno le storie, sul rumore delle rotaie del tempo quando sei in corsa e t’accorgi che la tua fermata era tre stazioni prima, sul com’è tardi quando ci si rende conto che parole come ambizione, successo, carriera sono solo sinonimi edulcorati della parola “fuga”.

Perché non è detto che il fermarsi sia sempre sinonimo di resa, e altrettanto il contrario. E Maurizio Petraglia ce lo dice, e riesce a farci anche sorridere con un registro narrativo che resta sobrio – se non leggero – anche nelle situazioni più complesse e drammatiche, laddove sarebbe stato semplice affondare il colpo sfruttando l’emotività del lettore. Ma a lui, diversamente da quanto recita una famosa pubblicità, non piace vincere facile.

7 dicembre 2018 – © Riproduzione riservata
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