Terapia d’urlo

[di Ernesto Giacomino]

Tra il dire e il guarire c’è di mezzo un mare. Di gente. E code lunghe giorni. Perché parlare di sanità che boccheggia, qui da noi, più che altro sembra un abusato esercizio di retorica. Il pezzo forte da sfoderare dai palchi in campagna elettorale, la chiacchiera tra comari in ascensore. Eppure no: adesso parlano – o meglio, sparlano – i numeri: a fronte di un (reale?) pareggio di bilancio sbandierato dal governatore De Luca, gli effetti dei reiterati tagli alla spesa sanitaria degli ultimi anni sono, nei fatti, una spaventosa carenza di personale (si parla di decine di migliaia di unità in meno), un evidente sovraccarico di lavoro per medici e paramedici, una diffusa assenza di manutenzioni alle strutture e, più in generale, una percezione di fatiscenza e disorganizzazione che di certo non ispira ottimismo nell’utenza.
La cartina tornasole, al solito, è rappresentata dal pronto soccorso. E badate bene: quello di Battipaglia, rapportato ad altre realtà limitrofe, magari è un’eccellenza. Se ti va bene te la cavi con tre-quattro ore tra attesa e dimissioni (o ricovero, quando serve); se ti va male, e beh, mettiti comodo e di’ a casa che ti portino un cuscino. Ma comunque nulla, rispetto ai picchi di quarantott’ore osservati altrove, con malati abbandonati su sedie e barelle e familiari a reggergli la flebo d’ordinanza, con l’occhio vigile su qualunque camice di passaggio per capire cosa fare, sperare, aspettare.
Scene da lazzaretto, diciamocelo. Medici che smontano dal turno come tornando dalla guerra, pallidi, col passo appeso, lo sguardo assente e la testa fumante. Infermieri affannati da corse per i reparti, rauchi per il troppo parlare, calmare, urlare, spiegare. In mezzo, i pazienti. Vittime e carnefici, clienti e fornitori. Causa ed effetto di una tensione emotiva e una sfiducia diffusa che rendono, oggi, gli ospedali luoghi di sofferenza ancor più di quanto non lo siano per definizione.
Ci sono stato pochi giorni fa, al pronto soccorso. Accompagnavo un familiare, alle tre del mattino. Nove ore per una tac, una radiografia alla caviglia, l’attesa dell’ortopedico per le dimissioni. E all’accettazione eravamo in pochi, cinque o sei al massimo. Ma erano in pochi anche dall’altra parte, oltre il vetro. Il personale, dico. In pochi, o – alle volte – proprio nessuno: all’alba, poco dopo le sei, mi sono affacciato dalla stanza in cui facevo compagnia al mio familiare, e ho visto la sola guardia giurata. Cooptato altrove l’addetto al triage, chiamato in reparto il medico di guardia, smarriti tra emergenze varie gli infermieri di turno.
Che pareggio di bilancio è, quello che si raggiunge risparmiando sulla salute della gente? Che società civile è, quella che disincentiva i giovani alla professione medica offrendo, nella migliore delle ipotesi, un futuro di conflitti e disillusioni?
Serve una raddrizzata etica, tant’è. Perché non può esistere nessun’epoca del benessere, se un malato, anziché una vita da salvare, viene sempre più considerato un costo da evitare.

26 luglio 2019 – © Riproduzione riservata

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