Un buon insegnante

[di Ida Rosaria Napoli]

Il professore De Gregori aveva lasciato il liceo scientifico da un decennio. Incastonati nella sua mente c’erano tutti gli anni trascorsi in quella scuola, a formare ed istruire numerose generazioni di alunni.

I primi anni erano stati terribili. La mattina avvertiva un senso di vuoto, l’inquietudine si univa alla noia del sentirsi inutile, alla percezione netta che nessuno aveva bisogno di lui. Si vestiva con meticolosa cura, attraversava i pochi metri che lo separavano dall’edificio scolastico, si mescolava tra gli alunni, si inebriava del mormorio dei ragazzi. Il loro vocio era la notazione musicale che segnava l’inizio della sua giornata.

Nel grigiore del tempo che passava, nel silenzio della sua casa aspettava il trillo del telefono. Quel filo che li univa era fatto di rispetto e di un amore filiale unico perché li aveva amati come le cose più care al mondo. Per anni avevano commentato i classici latini, si erano soffermati su I promessi Sposi, e libri che non si può fare a meno di leggere, Delitto e castigo, L’Insostenibile leggerezza dell’essere ed altri che è superfluo elencare.

La sua vita aveva guizzi di luce, le sue labbra si schiudevano in un sorriso quando, le ore non più orfane delle loro voci, si riempivano dei successi o dei loro fallimenti. Da buon professore li consolava o si riempiva di orgoglio per il buon raccolto, per le loro menti curiose ed attente, per il loro comportamento eticamente corretto. Il suo mondo colto, le sue competenze non vagavano in un’aria disfatta, ma vivevano nei suoi alunni proiettati verso un mondo pieno di speranze.

La vita era stata avara di affetti con lui. Aveva avuto una lunga storia d’amore con una professoressa che si era dissolta nel nulla. La scuola, come un’amante esigente ed intrigante, lo assorbiva tutto.

Come un padre, nel tempo, aveva tessuto una rete di amore con i suoi alunni. I ricordi più belli della sua vita si intrecciavano con gli alunni, i loro genitori, i tempi d’istruzione, la loro voglia di imparare, i viaggi insieme.

Delle volte si trovava ad implorare: «Chiamatemi, prima che il buio invada la stanza». Quell’emarginazione lo faceva soffrire. Nell’attesa si nutriva di ricordi. Erano passati altri anni, usciva poco, guardava dalla finestra i muri scrostati delle case, gli sembrava che con loro si sgretolasse anche la sua vita. Sapeva dal pizzicagnolo che gli portava la spesa che i suoi alunni, ormai genitori e affermati professionisti, si informavano sulle sue condizioni di salute.

Non si alzava più dal letto e, come tanti vecchi soli, era ricorso ad una badante. 

A sua insaputa i suoi alunni si erano riuniti ed avevano formato una catena di solidarietà. Ogni giorno, a turno, gli facevano compagnia. Gli sembrava di vederli ancora ragazzi: Renato con ivl suo ciuffo ribelle, Luca, un po’ grassoccio, Matteo, un’enciclopedia aperta, Nicola, creativo e fantasioso. Non sempre distingueva i loro volti nel travaglio degli ultimi anni, ma sapeva con certezza che sarebbero tutti stati accanto a lui come ad un padre provvido e buono e lo avrebbero accompagnato in religioso silenzio verso l’alba di un’altra vita.

17 giugno 2023 – © riproduzione riservata

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