Vorrei sgombrarti fra cent’anni

[di Ernesto Giacomino]

Perché a Battipaglia, quand’arriva il momento d’essere tempestivi, non guardiamo in faccia a nessuno. Se è vera emergenza, qua da noi, passano per dilettanti pure quei miliardari di Dubai che costruiscono isole nei weekend e grattacieli nelle pause pranzo. Tipo: a un vecchio palazzo a via Francesco Spirito sono sorte esigenze strutturali, vitali, esistenziali? Niente paura: risolviamo subito. Cioè, compatibilmente con tutti i bisticci di carte, regole, permessi. Senza essere presi alla lettera, insomma: un “subito” lavorativo, diciamo. Un giorno, o due, o dieci. O un mese. Oppure… ma perché darsi limiti di tempo, questa roba volgarmente convenzionale che s’arroga di misurare le emozioni umane, che osa svilire poesia e romanticismo d’un immobile stanco ma dignitoso che rifiuta il peso degli anni e chiede solo attenzione?

Via Francesco Spirito è in zona ex passaggio a livello, l’ultima traversina che da via Matteo Ripa sbuca su via Roma. Palmo più, palmo meno, in linea d’aria saremmo a una cinquantina di metri dalle scuole Gatto e quasi di fronte al parcheggio pubblico. Un corposo flusso d’auto, insomma; con l’aggravante d’essere alle spalle d’una strada nazionale che già di suo ha una viabilità complicata. Qualunque limitazione vai a metterci, laggiù, si propaga sul traffico dell’intera città alla velocità d’una tempesta solare.

S’era agli inizi di febbraio, quando si decise di chiuderla. Inizialmente troncando direttamente via Ripa, poi transennando solo l’accesso a quella traversa, infine consentendo di percorrerla a metà fino a una viuzza che devia su via Trento e ti fa sbucare sulla ringhiera del sottopasso (che lì, poi, goduria assoluta: manovre al millesimo, sia per imboccarlo che per aggirarlo, che manco all’allunaggio del Lem).

Perché? Perché in fondo a quella strada, s’intuiva, c’era un palazzo da manutenere. E quel divieto di transito e la palizzata in legno che interrompevano la strada avrebbero dovuto costituire un surrogato di messa in sicurezza fino a quello che – s’immaginava – sarebbe stato un intervento tempestivo. Quaranta giorni fa, questo. A seguire, quindi: sei settimane di nulla con una strada chiusa e quattro assi inchiodate, valicabili da chiunque: adulti, bambini, animali. Io, addirittura.

Boh, non lo so. Magari la procedura è questa, e chi lo discute: aspettare i passaggi tecnici a tempo indeterminato, evitando frattanto che in quella data zona a rischio si passi con qualunque cosa abbia le ruote. Poi, vabbè, fa niente se c’è spazio abbondante per intrufolarvisi a piedi e guadagnarsi  una caduta di calcinacci in piena fronte. Oppure, la tesi opposta: quel palazzo, qualunque siano le sue necessità, non ha mai costituito tutto questo gran pericolo, e allora andrebbe capito perché quella strada sia chiusa da così tanto tempo. Considerando che una prima, vera parvenza di inizio lavori (stando ad autogru e operai che hanno cominciato ad affacciarsi da quelle parti, con conseguente paralisi del traffico) s’è cominciata a vedere solo un paio di giorni prima che questo giornale andasse in stampa.

E se solo per prepararlo, il paziente, abbiamo atteso quasi un mese e mezzo, non oso pensare a quanto ci vorrà per vederlo fuori dalla sala operatoria.

25 marzo 2023 – © riproduzione riservata

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