Una domenica mattina

[di Daiberto Petrone]

Una domenica di inizio ottobre, clima pressoché primaverile (quello di una volta) dopo l’altalena della appena trascorsa stagione estiva, occasione per una distensiva passeggiata in attesa che si faccia l’ora di pranzo.

Per raggiungere il centro decido di percorrere la bretella parallela al viadotto autostradale che collega la zona ove abito alla rotatoria della statale.

Tale arteria di recente realizzazione è anche dotata di marciapiedi – la cosa non guasta – e, quindi, mi accingevo ad una passeggiata in totale sicurezza che immaginavo serena e rilassante.

Ma, ahimè, la passeggiata si rivelerà tutt’altro che rilassante e serena. Giunto all’altezza del prima sottovia, laddove il marciapiede costeggia un piccolo muro di cemento, mi sono reso conto che ai lati dalla strada era sorta una piccola foresta con vegetazione di ogni tipo (vedi foto), così alta da sopravanzare le cime degli alberi che – pure ricordo – erano stati messi in sito prima dell’apertura della strada; gli alberi? pressoché scomparsi o comunque soffocati da erbacce, rovi e vegetazione spontanea di ogni tipo.

Il mio stato d’animo cominciava a trasformarsi in disappunto e, piuttosto che godere del bel tempo e del piacere di una bella passeggiata, ho cominciato a concentrarmi sulle brutture che accompagnavano il mio cammino. Poco più avanti notavo con soddisfazione che almeno si era provveduto a tagliare le erbacce lato marciapiede; la mia soddisfazione durava solo un attimo: il taglio riguardava una piccola striscia a ridosso del marciapiedi fino a quello che, una volta, era un filare di piccoli alberi destinati a crescere per assolvere la fondamentale funzione di bruciare anidride carbonica e produrre ossigeno e, perché no, procurare piacevole ombra, apportando effetti positivi sul clima urbano. Comunque, i pochi alberelli superstiti non travolti dalle operazioni di sfalcio giacevano abbandonati al loro destino, privi di paletti di sostegno, sopraffatti dalla vegetazione spontanea.

Il resto della passeggiata è stato connotato da un senso di impotenza ed amarezza, viepiù accentuatosi osservando le condizioni del verde all’interno degli spazi ospedalieri, la tronfia “epigrafe” che campeggia nella grande rotatoria del Palazzetto
“I love my city”, in stridente contraddizione col contesto cittadino, i cui amministratori, anch’essi altalenanti come l’estate trascorsa, hanno dimostrato, a più riprese, di non amare affatto il proprio paese, così come non lo amano coloro che disperdono ogni tipo di rifiuto, imbrattano ogni possibile superficie, non rimuovono le cacche degli incolpevoli cani, eseguono con approssimazione e strafottenza i servizi pubblici che sono chiamati a prestare, tutti coalizzati a rendere irreversibile il degrado cittadino: altro che “I love my city”.

Proseguendo… l’accesso alla villa comunale – lato capannone stile dopolavoro ferroviario della locale bocciofila – si presenta con piccole discariche di rifiuti  ben differenziati con una prevalenza di cartoni pieni, di bottiglie e lattine naturalmente vuote.

A questo punto profondamente sconfortato ho deciso di far rientro in casa, pensando che ha voglia il Buon Dio a regalarci  meravigliose giornate assolate, quando la luce serve a rendere maggiormente visibile ogni sorta di bruttura e guasti che l’“homo sapiens” si incarica quotidianamente e con assoluta pervicacia di procurare all’ambiente in cui vive, pur dichiarandosi orgogliosamente appartenente a quelli che…  “I love my city”.

17 febbraio 2015 – © riproduzione riservata

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