Tornano ‘e bastimenti

[di Ernesto Giacomino]

Quindi, apprendiamo, si può fare. Tipo che ho una ditta che smonta amianto dalle case, o ho migliaia di doppioni di quella collezione di bottiglie d’acqua Panna cominciata nel ‘63, o ho montato in garage una centrale termonucleare artigianale per combattere il carobolletta; insomma, faccio comunque un’attività che produce tanfi e scorie e rifiuti vari, e niente: quando proprio non ne posso più li ammucchio sotto al portone e così, a caso, chiamo una società di smaltimento tunisina per disfarmene. Quella accorre, si prende i fusti coi rifiuti, li imbarca e se ne va. Arrivata al porto di destinazione, però, la doccia gelata: salgono a bordo il maresciallo Omar e l’appuntato Mustafà, danno una guardata, un’annusata generale, qualche calcetto ben assestato ai bidoni e alla fine scrollano il capo: “no, no, rimanda indietro, questa è roba che non possiamo prenderci, è un’annata che non ha mercato”. E la nave – fortuna che può riciclare il biglietto dell’andata che non aveva obliterato – si rimette in mare e riporta il carico al mittente. Non a me, però, che sono quello che i rifiuti glieli aveva dati: alla Regione, che a sua volta (con la sua proverbiale trasparenza e assenza di ambiguità) sale su un grattacielo del centro direzionale, osserva il panorama e comincia a fare amblinblancia la lincia e la lancia tra i vari comuni che le capitano sott’occhio per decidere a chi regalare il pacchetto omaggio così scortesemente rifiutato dai dirimpettai nordafricani. Con tutto il legittimo e sacrosanto contorno, è ovvio, di polemiche, proteste e minacce d’insurrezioni.
E io, invece? Il produttore dei rifiuti, il responsabile del remake in versione diplomatica della guerra di Cartagine, il padre creatore di questo irrisolvibile circolo vizioso? Io niente, che vuoi che mi freghi. Torno giù in garage col tutone di Omar Simpson, rimetto in moto il reattore ricavato dal secchiello dello spumante e aspetto che l’energia nucleare mi ricarichi il gruppo elettrogeno mentre sfoglio un numero a caso di Diabolik preso dallo scaffale dei sottoli.
Il concetto è stantio, insomma: se il pesce puzza dalla testa, poi hai voglia a detergere, lavare lische e spruzzare limone. E mi sovviene quando tempo fa, quand’ancora m’illudevo che i partecipanti ai social possedessero tolleranza di vedute, in occasione d’una mobilitazione popolare proprio per la questione rifiuti affermai che spostare geograficamente il problema nell’immediato non sopperiva alla certezza che si sarebbe ripresentato a breve. E che, forse, la questione poteva solo essere spalmata in un’ottica di lungo periodo, imponendo a “quelli che ne capivano” (non a un popolo istigato e spaventato) l’onere imprescindibile di ri-ragionare radicalmente, in termini qualitativi e quantitativi, scelte di materiali, filiere strategiche di conferimento, metodologie di recupero. Inutile dire che, in risposta, non conobbi mai così tanti esperti in tematiche ambientali come allora: tutti laureati di botto in chimica e merceologia, come trasformati col bidibodibibù della bacchetta della fata madrina.
Acqua passata, per carità, e chi si ripermette. Però ora scusatemi, ma mi bolle l’acqua nel reattore: ché a me, non me ne vogliate, ma il plutonio piace al dente.

26 febbraio 2022 – © riproduzione riservata

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