Tampone serio-logico

[di Ernesto Giacomino]

Tranquilli che li abbiamo pure qua, i negazionisti. Solo che, essendo noi ancora attaccati a un certo orgoglio provincialistico, anche questo fenomeno – come tutto ciò che parte bello tosto dalle metropoli e arriva in periferia fiaccato e ridimensionato – ce lo siamo addomesticati in una dimensione più intima e gestibile. Casereccia, diciamo così.
Cosicché, in genere, per convincere il negazionista battipagliese medio a indossare la mascherina non devi arrivare a sciorinargli tutta la storia degli ospedali al collasso, e gli studi scientifici che dimostrano che il virus è naturale e non di laboratorio, e che per la “banale influenza” che colpisce solo anziani e immunodepressi ci hanno invece rimesso la vita centinaia di persone assolutamente giovani e in salute. No: tu, ad averci a che fare col tizio che sta in fila con te davanti al supermercato, col naso bello di fuori e la mascherina appena poggiata sul mento, che straparla di Big Pharma e dittatura sanitaria, accenna solamente a starnutire. Tempo un secondo e vedrai che tutte le sue teorie sul “gomblotto” mondiale, i cinesi caput mundi e la malattia che scompare con due gargarismi d’idrossiclorochina scricchioleranno rumorosamente, in stile porte dei castelli nei film dell’orrore. E di colpo, oltre a vederlo fare una paio di corposi balzi al lato, lo sentirai cominciare a mangiucchiarsi tutte le certezze d’un minuto prima come quando spezzetti coi denti il bucatino intero che non riesci a mandar giù. Tutta gente, insomma, che nel giro d’un paio di frasi passa da un categorico “io non ci credo” a un più morbido “io non sono negazionista, ma…”, perché alla fin fine farsi entrare in testa una leggera incrinatura di pensiero non ha mai ucciso nessuno.
Ecco: noi quaggiù, chi più chi meno, siamo così. Il che è una fortuna, perché pure a volersi mettere di traverso rispetto alle migliaia di persone che corrono ai ripari per arginare l’epidemia il danno degli obiettori resta potenzialmente gestibile. Il dubbio ha il dono della precarietà, è tipo la boa in mare a cui t’aggrappi per non annegare, sei pronto a lasciarla se qualcuno ti lancia un salvagente e ti trascina sulla terraferma. Noi, alla maniera socratiana, sappiamo di non sapere: magari ci arrischiamo pure a discutere di geopolitica e finanza globale ma poi pendiamo dalle labbra del cassiere del discount quando non ci troviamo con lo scontrino; avremmo in tasca ogni rimedio naturale contro i malanni ma impieghiamo mattinate tra medici e farmacie per non farci mancare l’antinfiammatorio per l’artrosi. Pretendiamo di dire la nostra, ma nel fondo-fondo delle nostre convinzioni sappiamo che “la nostra” può soccombere di fronte “alla loro”, se in quei loro c’è gente che – obiettivamente, manifestatamente – ne capisce più di noi.
Resta improbabile, quindi, che di qui a un tot i telegiornali nazionali potranno parlare d’un raduno di no-mask in piazza Amendola, o di qualche esaltato intrufolatosi al pronto soccorso per filmare “messinscene” d’una malattia che ritiene inventata.
Come dire: abbiamo un’epidemia seria, e con essa restrizioni e obiezioni come ovunque. Ma almeno, quaggiù, compensiamo con la rassegnazione di essere, tutto sommato, ancora brava gente.

21 novembre 2020 – © Riproduzione riservata

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