Stasera ti butto

[di Ernesto Giacomino]

Sui cassonetti della raccolta di abiti usati ci sono pannelli da un metro per un metro con istruzioni precise e a prova di fesso: quali indumenti conferire, in che stato devono essere, in che imballo rinchiuderli e come imbucarli.
E ok, tempo sprecato. Da mesi, ormai, quei contenitori sono lo spasso impunito dei barbari nostrani: ci si butta qualunque cosa, dalle cartacce alle buste dell’umido, ai vuoti di birra dopo le scorribande notturne. Fino a imbottirli, insozzarli, renderli inservibili. Col rischio, poi, che quegli stessi indumenti che non t’è riuscito d’infilare per mancanza di spazio o per inceppamento del meccanismo ti restino in casa più o meno a vita, giacché a volergli trovare un posto nell’indifferenziata è facile che gli operatori della raccolta ti lascino la busta sotto casa.
E quindi nessuno vede, nessuno sa; peggio ancora, nessuno s’indigna. Cioè, noi, gli stessi cittadini pronti ogni volta a insorgere per il problema rifiuti, a marciare in massa e sfondare portoni di municipi, a sciorinare statistiche di rischi oncologici davanti alle telecamere di qualche telegiornale locale, a minacciare occupazioni di autostrade e ferrovie in nome della “salute dei nostri figli”, tanto attenti al peso specifico dell’immondizia gestita in sede istituzionale, poi diventiamo così miracolosamente tolleranti e distratti da fregarcene dell’immondizia che gestiamo noi.
Non è un dettaglio, è un fatto più ampio. Da sempre ogni metropoli, città, cittadina, paese, anfratto, rione o condominio, ha un disagio storico che emblematicamente, in tempi di contestazione, s’assurge a leit motiv in rappresentanza di tutti gli altri problemi. Così è, ad esempio, per l’acqua alta a Venezia, o per le buche a Roma, o per i crolli degli scavi a Pompei. Come dire: nell’immaginario collettivo ne divengono il simbolo in negativo, l’arma di sicura efficacia da tirare fuori alla spicciola ove serva accusare qualcuno o incensare qualcun altro.
A Battipaglia, si sa, il catalizzatore d’ogni discussione parapolitica è la gestione dei rifiuti: dalla puzza perpetua alle mancate bonifiche, dal controllo di legalità dei siti esistenti alle battaglie contro il potenziale insediamento di nuovi impianti. Tutta roba, peraltro, che in tempi d’elezioni viene ottima per farci materia da campagna elettorale: perché la colpa – questo è sicuro – è tutta d’un “loro” che non siamo mai noi.
Come fosse un’altra cosa, no? Tipo “che c’entra se chi ritira gli indumenti usati si ritrova un tostapane arrugginito tra le mani, il problema sono le discariche”; oppure “ma vuoi mettere la puzza del pannolino di mio figlio in un cestino per strada con quella dell’impianto di compostaggio?”
E beh, sì, voglio mettere. Perché ciò che non pare chiaro è che il disagio della questione rifiuti è solo la foce, lo sbocco, il punto d’arrivo, d’un fiume ben più antico di opportunismi politici, ambiguità, aggiramenti di norme. Che sicuramente per strada s’arricchisce di altre nefandezze non controllabili; ma lì, alla sorgente da cui prende vita, trova troppo spesso l’alleato più vincente e prezioso di tutti: lo scarso senso civico del cittadino.

14 ottobre 2021 – © riproduzione riservata

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