Spaghetti allo spoglio

[di Ernesto Giacomino]

In piena bagarre elettorale viene sempre utile farsi un giro nei posti di ritrovo battipagliesi (piazzette e bar, in genere, ma anche capannelli all’uscita di chiesa o genitori a bordo campo nelle scuole calcio dei figli) e tracciarsi, ogni volta, una micromappa dei profili di elettori nostrani più gettonati.
Il primo resiste oramai da un secolo, è quello stoico e storico dei fedelissimi integerrimi, molto penalizzato dal (semi)bipolarismo e coalizionismo a priori instauratosi con la seconda Repubblica, ma mai definitivamente arresosi all’avanzare dei tempi. L’idealista, cioè. Per lui un governo che si rispetti deve tenere rigorosamente fede ai principi dei fondatori della corrente che l’ha votato, a prescindere dall’epoca in cui sono sorti: per cui, sì, vai con gli incentivi pubblici ai fabbricanti di locomotive a vapore, l’eliminazione della tassa di possesso su calessi e risciò, la convenzione con gli Usa per dimezzare la quarantena dei migranti italiani a Ellis Island. In genere, poi, nel day-after, contesta qualunque risultato sia uscito dalle urne, apparecchiando confronti con le vecchie classi dirigenti di ciascun partito all’urlo di “Tizio (o Caio, o Sempronio) si starà rivoltando nella tomba”.
Il secondo segue a ruota: è quello che sconta la coda d’ambiguità e corruzione della prima, di Repubblica, per cui parla della politica con termini banali e abusati come “uno è peggio dell’altro”, “tutti ladroni”, “il solito magna magna”, ma con quell’accoramento e livore di chi, in realtà, avrebbe voluto magnare con loro. Ciononostante, non ha perso le speranze di mandare in Parlamento uno che si prenda a cuore le sue esigenze familiari e personali, e continua a studiarsi vita, morte e miracoli di ogni candidato per vedere se sbuca una conoscenza in comune o una vicinanza di poderi per metterla sull’affettivo, sulla vecchia amicizia, sul “fa’ tu un favore a me che domani ne faccio uno a te”. Cosicché, ove le elezioni mettano sullo scranno un neodeputato o neosenatore tutto sommato abbordabile o rintracciabile, nei mesi seguenti lo si vedrà fare la spola da un palazzo all’altro con in mano i capponi di Renzo e in corpo l’ansia di trovare un Azzeccagarbugli che faccia da tramite.
I più pericolosi, comunque, restano quelli rientranti nel terzo profilo, giacché già per loro natura poco individuabili e censibili: gli astensionisti. Una categoria vasta ed eterogenea, che va dagli sfiduciati, ai nichilisti, agli eterni indecisi, agli pseudoanarchici col golfino Prada e la paghetta del babbo possidente, tutti accomunati da quel “no, io a votare non ci vado” ostentato come un vanto, un pregio, un’amabile particolarità. Quelli il cui comportamento ha preteso, alla lunga, la coniazione di quel termine dedicato, “astensionismo”: quasi che – anziché l’omissione, nei fatti, di un dovere civico – fosse una corrente di pensiero, una deriva filosofica di utlima generazione.
Tutto lecito, per carità. Sacrosanto. A patto che poi, però, si dimostri uguale coerenza nell’evitare di giudicare (con la spocchia del “te l’avevo detto”) le scelte degli altri. Perché fidatevi: le chiacchiere a perdere, specie di questi tempi infami, sono le ultime cose di cui abbiamo bisogno.

24 febbraio 2018 – © Riproduzione riservata
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