Ritorno | di Umberto Faenza

Sulla strada di casa, in metro, spesi la maggior parte del tempo a fissare il vetro della carrozza. Osservavo il mio riflesso, mi guardavo negli occhi.
Di colpo tutto il resto perse d’importanza, e così cominciai ad analizzarmi.
Una cosa era certa: ero cresciuto. 
Intorno ai miei occhi un alone scuro sembrava farli stare faticosamente a galla. Un’altra cosa era certa, almeno per me: ero stanco.
Mi chiedevo se le altre persone fossero in grado di vedere attraverso le mie pupille la somma di ciò che io avevo visto. Mi risposi tristemente di no. 
Ma un briciolo di speranza, unito forse ad un semplice bisogno di appartenenza, mi convinsero del fatto che qualcuno ci sarebbe riuscito.
Mi capitava spesso di starmene seduto in metropolitana e sperare di non arrivare mai. Volevo rimanere per sempre in quel limbo, in cui hai già lasciato il posto in cui eri, ma non devi ancora avere a che fare con ciò che troverai all’arrivo. 
Come essere fermi, ma comunque in movimento. 
La verità era che rimanere fermo cominciava ad inquietarmi. 
Le mie guance scavate scivolavano tutte d’un pezzo in una barba incolta che portavo da anni e che ormai quasi mi identificava. Cercai di immaginare cosa avrei visto se non ce l’avessi avuta. Mi chiesi se lì sotto ci fosse ancora quel ragazzino che spensierato non lo era stato mai, ma che non aveva paura di lasciarsi andare alla potenza di certe emozioni che a volte ci vengono regalate.
Mi compiacqui comunque dell’abilità del mio corpo di produrre una barba così folta e decisi che sarei andato da un barbiere per darle un minimo di cura. 
Così, per un attimo, tornai sulla terra. Mi guardai intorno.
Cominciavo a diventare intollerante alla metro. A volte mi faceva sentire come un inutile punto in un insieme di altri punti. Nulla di più.
Ma allo stesso tempo i mezzi, inconsapevoli, contenevano e spostavano ogni giorno un’importante dose di verità. Mi permettevano di perdermi in ognuna delle vite dei loro passeggeri. Storie talvolta simili alla mia, spesso totalmente diverse. Quello che mi affascinava, però, era che persino quest’ultime riuscissero a raccontarmi qualcosa su me stesso. 
Avevo trovato un pizzico di libertà nella condivisione dell’essere unici. 
Arrivai a casa, e tutto il resto scomparve.
Tornai così a vivere soltanto la mia storia, ma non sapevo dove stavo andando e a malapena sapevo chi ero. Era successo di nuovo. 
E come tutte le volte in cui non guardavo avanti, il passato tornò a farmi visita. Non avevo neanche più la voglia di provare a contrastarlo, perciò mi lasciai cullare dal suo dolce e potente canto, che dice: non c’è altro che importi davvero, se non ciò che ricordi.

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30 gennaio 2021 – Riproduzione riservata

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