Rendicontare o insegnare?

[di Iole Palumbo]

Fine anno scolastico: tempo di verifiche, rendicontazioni e consegne improrogabili. Per gli alunni? No. O meglio non solo, soprattutto per i prof. Il termine delle lezioni coincide con la chiusura delle attività ordinarie dei docenti e apre una lunga serie di incombenze burocratiche che, come per le altre istituzioni pubbliche, servono a rendicontare l’attività svolta nel corso dell’anno. Quelle energie che un tempo si concentravano principalmente sugli scrutini, oggi sono spese per relazioni finali, disciplinari, globali, dei progetti, delle attività ordinarie e di quelle inerenti le figure strumentali, i PIA, i PAI, i monitoraggi, le certificazioni delle competenze, le rubriche di valutazione, le tabelle di giudizi.  Una serie di mansioni, molte delle quali fini a se stesse, che sono aumentate in maniera esponenziale con la complicità della Dad e del lungo percorso legislativo verso l’autonomia scolastica. 

Ma per fortuna si va verso le vacanze, i docenti si riposeranno per poi tornare nelle aule carichi a settembre. Eppure non è proprio così. In classe metteranno piede solo dopo aver aggiornato e redatto i PTOF, i piani di miglioramento, il curriculum verticale, i criteri per la valorizzazione del merito dei comitati di valutazione, le progettazioni e i compiti di realtà. Per trovare conferma di quanto detto basta fare un giro sui siti delle diverse scuole e provare a barcamenarsi tra gli elenchi di sigle poste di spalla sulle homepage, sezioni note solo agli esperti del settore. L’idea che sottende a questo modo di operare è presa in toto dalle aziende, come se l’obiettivo finale fosse mettere nero su bianco e quantificare un prodotto che, cosiffatto, si trova ad escludere la dimensione integralmente umana, centrale nella scuola e nei processi lunghi e non lineari della crescita. Al di là della questione aperta, cioè se gli competa o no, il rischio è che un docente si trovi a dirottare le sue energie verso una funzione di burocrate distogliendo l’attenzione dalla sua attività principale: insegnare. 

La didattica a distanza ha dimostrato quanto per un apprendimento efficace sia indispensabile toccare tutte le dimensioni dell’essere umano: intellettuale, razionale, affettiva, emotiva, relazionale, corporea, in maniera tra loro interconnessa e inscindibile. Quello tra gli insegnanti e gli studenti è prima di tutto un rapporto umano. La semplice trasmissione di un contenuto come se fosse una merce preconfezionata, realizzata pure in un linguaggio multimediale, per i ragazzi sicuramente più congeniale, così come è avvenuto nei mesi della pandemia, ha messo in luce le falle di sistema che vede al centro il contenuto e non la persona. Se, come dice le Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”, la scuola è il principale strumento perché questo avvenga. Dunque la domanda che è anche la sfida per il nostro prossimo futuro è: può il docente essere ridotto a mero certificatore di competenze o piuttosto deve ridefinire il suo ruolo verso obiettivi diversi? 

30 giugno 2021 – © riproduzione riservata

Facebooktwittermail