Qualcosa è cambiato
[di Daiberto Petrone]
Inimmaginabile fino a poche settimane fa l’attuale scenario di un paese deserto, quasi spettrale, che continua ad assicurare soltanto i servizi essenziali, col blocco di qualsiasi attività non strettamente legata alle necessità primarie. Ho continuato a chiedermi perché la maggior parte di noi, nonostante le notizie della diffusione del virus in Cina fossero sempre più allarmanti, abbia avuto un atteggiamento di assoluto scetticismo, che è cambiato soltanto quanto l’epidemia ha cominciato a diffondersi nel nostro Paese.
Poi credo di aver capito: abbiamo ritenuto che quanto stesse avvenendo in Cina, alla stregua delle tante altre emergenze sanitarie nel mondo, delle guerre, delle migrazioni di popoli, degli eccidi per motivi religiosi, che ieri e ancora oggi, interessano tante parti della nostra terra, appartenessero alla categoria di quelle cose che quotidianamente affollano i telegiornali e le pagine della stampa, dalle quali si può tranquillamente uscire (l’espressione è dello scrittore Antonio Scurati) semplicemente cambiando canale, spegnendo la TV, oppure buttando via un giornale. Non ora, questa volta non possiamo né cambiare canale, né gettare il giornale, quanto sta accadendo riguarda proprio noi, la nostra esistenza.
Per la prima volta ci troviamo concretamente esposti a un rischio così elevato per la vita di tante persone. A differenza di padri e nonni, non abbiamo conosciuto le grandi tragedie belliche, le epidemie e la barbarie dei genocidi del Novecento, ora è arrivato anche per noi il momento di confrontarci con una condizione di incombente pericolo, di cui non abbiamo alcuna esperienza. Dopo un primo momento nel quale è prevalsa la contrapposizione, ora siamo in una fase di elaborazione del contesto, valutando che sia la sottovalutazione che il panico non giovano alla battaglia per sconfiggere il virus. Sul punto ho molto apprezzato l’articolo di Francesco Bonito sull’ultimo numero di Nero su Bianco, laddove parla di “giusta distanza” tra la minimizzazione e l’allarmismo. Dobbiamo prendere atto della nostra impreparazione e, purtroppo, anche degli errori a livello nazionale e internazionale per l’assenza di protocolli obbligatori sui trasporti, di risposte politiche tempestive e adeguate, ivi compresa la gestione della comunicazione del rischio alla popolazione. Abbiamo assistito a fughe su treni notturni, irresponsabili concentrazioni di persone, code agli impianti sciistici che hanno contribuito alla diffusione del contagio, come è accaduto tante altre volte nella storia delle epidemie. Allo scetticismo iniziale è subentrata l’angoscia, la paura e, in alcuni casi, il panico. Oggi, dopo i provvedimenti dell’Autorità e la risposta delle persone, sembra esserci una comune volontà di lottare insieme per uscire al più presto dalla grave emergenza sanitaria. Apprezzabile la risposta pressoché totalitaria dei nostri concittadini, attesa la diffusa osservanza dei severi divieti imposti. Devo registrare che, ad onta dell’etichetta di anarchici, anche in questo caso, come in quello del divieto di fumare nei luoghi pubblici e negli uffici, gli italiani hanno saputo dare una risposta di autentico senso civico.
Questa nuova esperienza sarà impegnativa e dolorosa per tante famiglie, ma non dovrà essere vanificata. Preso atto che la nostra condizione umana può comportare anche situazioni di grave rischio per la nostra e l’altrui vita, dobbiamo, invertendo la tendenza all’individualismo, avere lucida consapevolezza dell’appartenenza a una comunità e lottare insieme per il fondamentale bene che è la nostra vita.
Foto di Antonello Toriello
20 marzo 2020 – © Riproduzione riservata