Padre Vincenzo: «La risposta spetta a noi»

[di Carmine Landi]

Trenta minuti. Trascorrono dall’orario concordato per l’appuntamento all’effettivo inizio dell’intervista, pure se, a mezzogiorno in punto, padre Vincenzo Sirignano è puntualmente alle porte dei locali della parrocchia di Santa Maria della Speranza. È il suo cellulare a squillare di continuo, come quello d’un padre nell’ora del bisogno: dall’altra parte del telefono si susseguono fedeli in preda ai più disparati mali – fisici e non – che cercano una parola di conforto dal sacerdote, ben lieto di caricarsi in spalla le travi di legno di quelle croci, alla maniera d’un cireneo.

Alla maniera d’un amorevole genitore, perché «la caratteristica degli otto anni trascorsi finora a Battipaglia – rivela il padre stimmatino, arrivato nel 2016 dalla vicina Bellizzi – è la chiamata alla paternità e alla maternità». Chiesa madre: appellativo riservato al santuario che federa 23 mila parrocchiani e decine di migliaia d’anime in più, amalgamati da uno squadrone di circa settanta operatori pastorali. «Qui si raccolgono persone che provengono dall’intera Piana: questa Chiesa è davvero Madre e Padre. Ed è sempre stata tale, nella sua ultraottantenne storia». 

Così quel giovanotto di Poggiomarino, classe ’67, che a dieci anni appena, nella sua parrocchia, mirando e rimirando la bellezza d’una comunità di padri stimmatini che lo crebbe amorevolmente avvertì la prima fatale attrazione per Cristo («Poi pure io – confessa – come tanti ragazzi m’allontanai dalla Chiesa e smisi perfino d’andare a messa: la fase vocazionale più forte è riaffiorata quando ero sedicenne al Cammino neocatecumenale»), sulle sponde del fiume Tusciano ha riscoperto la paternità del sacerdozio.

Un padre che cerca di dare risposte agli infiniti “Papà perché?”, come in una ballata di Zucchero. «Qui alcuni giovani mi vedono come un fratello maggiore, altri come un padre e qualcuno perfino come un nonno. E la domanda ricorrente, al pensiero del Covid, delle guerre, delle stragi dei migranti e dei femminicidi, è: “Perché Dio non interviene?”. Io controbatto: “Perché l’uomo non è intervenuto? Dio ha spianato una strada, l’uomo ha deciso di non seguirla”». 

È il protagonismo dell’umanità, in antitesi con l’attesa messianica d’un salvatore che cancelli tutti i problemi con uno schiocco di dita, perché «il Messia è venuto 2024 anni fa ed ha già santificato il tempo e la storia. Ora la risposta spetta a noi». 

Un esempio pure per i tanti battipagliesi che aspettano una città migliore piovuta dall’alto: «Se a Battipaglia vedessi qualcosa che non va bene, anziché puntare il dito contro chi mi governa m’impegnerei personalmente perché quella cosa vada bene. Se la città è sporca, non getto le carte a terra. Anche così si realizza una persona: è mettersi al servizio del prossimo». A Santa Maria della Speranza lo fanno da sempre. «Qui ci sono opere concrete e lodevoli che rendono un servizio ai poveri, sorte per mezzo di padre Ezio Miceli: Casa Giona, Casa Speranza, la Mensa dei poveri, il Polo della carità che sta per nascere. È la parte visibile e pratica della povertà, ma ce n’è pure un’altra: quella esistenziale». E arginarla è l’imperativo categorico del parroco-papà: «Pretendo che qui ci sia sempre qualcuno disponibile all’ascolto. In molti vengono serbando la speranza di trovare qualcuno con cui aprirsi e raccontarsi: ascoltare è farsi compagno di vita, fratello e sorella, madre e padre. È genitorialità». Una mano tesa, alla stregua di quella reclamata dai sofferenti protagonisti delle lunghe giornate di padre Vincenzo: «Gli ammalati in casa trovano grande spazio nel mio parrocato, per me hanno la precedenza su tutto. E poi, soprattutto tra Quaresima e Pasqua, busso, spesso all’improvviso, alle porte dei parrocchiani per impartire la benedizione alle loro case».

Il nobile intento è perseguire l’«unità», parola chiave dell’opera di padre Vincenzo: «Non è l’uniformità, bensì realizzare il comandamento di Gesù, che c’invitò ad amarci gli uni gli altri come Lui ci ha amati. È riconoscere l’unità nella diversità».

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