Ottantasettesimo minuto

[di Lucio Spampinato]

Se qualcuno fosse passato a volo d’uccello il 23 maggio del 1981 su quel campo di calcio della Santa Maria avrebbe visto una scena di tempo sospeso, avrebbe avvertito una tensione correre fra il pubblico, come di qualcosa che stava per accadere. Era una partita fra adolescenti. La Bertoni aveva reparti organizzati, giocatori ben equipaggiati: i ragazzi erano figli di benestanti. Al 25esimo minuto era passata in vantaggio. Il Real Baratta, dopo qualche minuto di scoramento, aveva cominciato a svegliarsi: la palla girava, le rimesse lunghe del portiere allontanavano gli attacchi pressanti degli avversari. Il migliore della Bertoni era Mario Franchetti, prima punta. Forte fisicamente ma anche agile e veloce, più che resistere agli attacchi dei difensori, se ne liberava smarcandosi con rapidità.  Non avrebbe tollerato di essere messo giù, voleva uscire dal campo lindo e pinto: ecco perché lo chiamavano ‘o signurino. Sotto la scorza, un’anima controversa! In porta c’era Enzo Palumbo detto Micione un po’ per via degli occhi di un celeste chiarissimo, molto di più per la capacità tutta felina di volare fra i pali a ghermire il pallone. Sempre scanzonato, era il suo modo di nascondere il dolore. Nel Baratta c’ero io, ala destra, specialista in discese per servire traversoni agli attaccanti. Il calcio, si sa, è un gioco fondato sull’inganno! E dei tanti inganni, o dribbling,  io praticavo quello in cui scendevo sulla fascia destra, mi fermavo  all’improvviso lungo la linea laterale,  faccia alla mia guardia, la palla stretta sotto i tacchetti per un secondo esatto e rilanciavo il secondo dopo la sfera in avanti, lasciando fermo al palo il marcatore disorientato. Al cinquantesimo era stato atterrato Gennaro Ceres, detto mezza birra, e su rigore pareggiammo. Dopo un’eternità di assalti frontali, spintoni, punizioni fallite e insulti  arrivammo all’87esimo e, insperata, giunse una punizione dal limite per un fallo su Landi, il nostro cannoniere, che poi dovette uscire. L’aria era ferma, il pubblico teneva gli occhi puntati sulla tre quarti dove stava per andare in scena il calcio piazzato: il mister mi aveva chiesto di calciare perché da quel bordo destro dell’aria io potevo tirare di sinistro, il mio piede migliore: un secondo di paralisi. Ero teso! Avevano gettato in campo un secondo pallone. L’arbitro corse dal guardalinee: era quasi scaduto il tempo regolamentare. Un mormorio saliva dal pubblico. Franchetti pensava ai genitori che stavano per separarsi. Micione guardava la collina e pensava al fratellino con la broncopolmonite. L’aria si mosse e un turbine di polvere invase calciatori e spettatori. Pareva una scena da duello del West. Se la palla fosse stata respinta, ‘o signurino sarebbe stato micidiale nel contropiede; se Micione avesse parato, si andava ai rigori e lo stesso se avessi tirato fuori. Chiusi gli occhi, respirai forte, sentii il fischio dell’arbitro alle mie spalle. Tirai senza guardare, tutti gli occhi presenti seguirono il pallone inarcarsi sotto l’incrocio dei pali. Molti saltarono in piedi urlando, braccia si abbandonarono tristi lungo i fianchi, occhi si sgranarono di gioia e altri si sciolsero al pianto. Battei una mano di vittoria sulla terra arsa del campo e scomparvi nella polvere che si alzava, come un antico eroe.

9 settembre 2023 – © riproduzione riservata

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