Orma letale

[di Ernesto Giacomino]

Diciamocelo: Zara contro Santomauro è un po’ come quel film di Stallone contro De Niro, Rocky conto Jack La Motta. Simpatico, pittoresco, ma antiquato come la bottiglia di vermouth casareccio sulle foto di compleanno. Scontro fra due ex sindaci inquisiti e arrestati, sai la gara in credibilità. Eppure, ricordiamocelo: equamente osannati come contestati, denigrati come apprezzati. Quasi come a voler rimarcare ai battipagliesi: ecco, questo è il meglio dell’amministrazione che ha potuto realmente rappresentarvi negli ultimi trent’anni. Figuratevi il resto.

Che l’affido per l’appalto della gestione della pubblica illuminazione puzzasse di rum da babà se n’erano accorti più o meno tutti i cittadini di un’età compresa dai sei ai novant’anni. Non fosse altro perché a Battipaglia esisteva una municipalizzata nata proprio per pensare a quello, i cui dipendenti rischiavano di andarsene a casa mentre in giro – per gli stessi servizi per cui erano stati dichiarati inutili – si cercava d’affidare a terzi appalti multimilionari. Non ci voleva un commissario, a farcelo notare: ci si arrivava da soli.
È che, semplicemente, ci conveniva fingere di non vedere. Perché compromettersi, in fondo? Ci tornava comodo, era un investimento in amicizie e controfavori, hai visto mai che ci ricambiavano l’ignavia donata. Poi, a cose fatte, quando non s’intravedeva più il tornaconto, eccoci qua: tutti indignati, tutti sconvolti. Fortuna che, mentre oggi il grosso del popolo invoca unicamente il linciaggio di Santomauro, c’è chi ha davvero preso atto che da un ventennio buono, a decidere le cose, è un più incancrenito e diffuso “sistema battipagliese”. Quello stantio dei compromessi, delle prebende, dell’accomodamento, del favoricchio al potentato locale. Un’organizzazione a punta di diamante in cui il pubblico amministratore, per godersi il venticello fresco dallo scranno più alto, fa da trottola diplomatica fra assessori, consiglieri, dirigenti, consulenti, convenzionati e affiliati. Ciascuno, si sa, con almeno un parente o un amico da accomodare, un condono da avviare, un terreno da rivalutare. Un lavoraccio infame, da prepensionamento con gratifica. Una malattia che trascende da chi ci rappresenta e s’incuba principalmente in chi li manda a rappresentarci. Un virus, peraltro, che può evolversi in tranquillità e generare questi periodici buonisti dell’ultim’ora, quelli che non solo sputano nel piatto dove hanno abbondantemente mangiato ma poi ci si fanno pure la scarpetta.

Per l’ennesima volta, qualche sera fa, ho visto quel documentario Rai sulla rinascita battipagliese sotto gli anni ’60. La ricostruzione, lo spirito indomito, gli industriali “di fuori” che ci hanno creduto. Tre industrie cittadine che da sole, nelle stagioni di punta, occupavano quattromila persone: quasi tutta la forza lavoro all’epoca presente sul territorio. Senza intrallazzi, senza sotterfugi. Alla luce del sole. In quel documentario tutti gli intervistati dicevano: “Il battipagliese ha scommesso sul suo paese. Non ha messo i soldi sotto il materasso: li ha investiti in case e negozi. Perché ci crede, perché vuole risollevarsi. Perché deve dare un futuro ai suoi figli.”

Ecco: magari, più che polemizzare, prendiamone atto. Quel futuro, vuoi o non vuoi, è finalmente arrivato.

10 aprile 2015 – © Riproduzione riservata
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