Non son rose, e sfioriranno

[di Ernesto Giacomino]

I veri cambiamenti non urlano, si dice. Non sono plateali, non si manifestano con fatti epocali, non stravolgono in un colpo solo certezze ed evidenze d’un determinato assetto precedente. Agiscono sottotraccia, impercettibili, per assuefazione progressiva. Ancor più, poi, quando sono peggioramenti: lì, piuttosto che esprimersi a voce bassa, addirittura tacciono. Per cui, hai voglia a tendere orecchie per sentirli: puoi solo subirli. Festeggiamo cinque anni e rotti da un’epidemia da cui, ne si era certi, saremmo usciti migliori. In realtà è stato il colpo di grazia a una delle economie che già prima era tra le più ingiuste e squilibrate nell’intera storia del mondo. Da un lato le fuoriserie, i giardini verticali, gli orologi d’oro e le piscine sul terrazzo; dall’altro occupazioni sempre più precarie, stipendi immobili, bollette rincarate e debiti lievitati. Chi era benestante s’è trasformato in possidente, e poi prepotente, e oggi onnipotente. Chi annaspava, invece, annega: e se ogni tanto ne si vede ancora la testa fuori, a insufflare uno spiraglio d’aria, è solo per una casuale rallentamento delle onde.

Anche qui, anche da noi, anche dietro tante porte che incrociamo per strada. C’è una Battipaglia che specula e si arricchisce e un’altra che arranca e si sfinisce. C’è un padre che per i figli spende cento ero a sera da McDonald’s e un altro che deve inventarsi scuse perché non può permettersi una pizza. C’è gente che in farmacia tira fuori la carta platino per il botox, e pensionati che non possono comprarci nemmeno l’aspirina. E in mezzo il nulla, la terra di nessuno: non c’è più il ceto medio, chi viveva sereno senza strafare, chi aveva il debito ma lo poteva pagare. Oggi, o stai tra i furbi e gli impuniti, o tra quelli col senso di colpa se hanno speso dieci euro in più per la benzina. 

Perché il fatto è logico e matematico: è l’eterna legge della perequazione, della compensazione tra partite quando le risorse sono chiuse e limitate: tutto ciò che ha in più una parte, l’ha avuta in meno l’altra. E se per la sussistenza d’una famiglia media, oggi, servono duemila euro al mese, e in casa ne entrano milleduecento, vuol dire che quegli ottocento in meno sono finiti in altre tasche. 

C’è un’aggravante, in ciò: quel sentore di perdita di dignità che sempre ti attanaglia quando devi privare i tuoi cari di qualcosa. Ché una volta nell’avere i denari c’era decoro, quasi rispetto per chi non li aveva: l’agiatezza non si ostentava, non si costringevano i genitori meno abbienti a peripezie finanziarie per far sentire i propri figli alla pari con gli altri. Noi, ricchi o poveri, si stava in strada vestiti uguali, andavamo dallo stesso barbiere, avevamo le stesse merendine nella borsa: oggi già dalle elementari si entra a scuola con scarpe da 200 euro, felpe arrivate dritte da Pitti Uomo, zainetto con bilanciamento automatico del peso e caricabatterie incorporato. Come lo spieghi, a un bambino di sei anni, che quell’amichetto là può permetterselo perché il padre è milionario?

È un collasso socioeconomico, ormai. Frutto e apoteosi dell’incapacità di chi s’è messo a governare il mondo. E del mistero irrisolvibile del perché, a deciderci la vita, s’è votata la stessa gente a cui non avremmo affidato manco il guinzaglio per portarci a spasso il cane.

Facebooktwittermail