Lo specchio | di Umberto Faenza

Tra le due luci soffuse delle lampade da camera, cominciai a perdere un po’ di lucidità. Non uscivo da tre, forse quattro giorni. Me ne andai in una pianura Norvegese, mentre immobile fissavo le mura in penombra della mia stanza. Una pioggerellina costante mi rinfrescava la faccia. Mezzo passo e sono lì, pensai.
Ahimè, tali stregonerie non esistevano ancora al di fuori della mia testa. La porta di casa rimaneva perciò la via d’uscita migliore, se non altro per una motivazione su tutte: esisteva davvero. 
In un paio di minuti ero fuori. L’aria pareva la fontanella d’una villa comunale in un afoso pomeriggio di gioco. Come un dodicenne col pallone sotto al braccio, presi grandi boccate di ossigeno. Cominciai a rilassarmi, camminando. Se il mio corpo fosse stato un esorcista, mi avrebbe detto: esci da questa mente. Non lo era, ma lo ascoltai comunque. Anche perché il freddo cominciava a congelarmi le tempie. 
Le strade erano bagnate di neve sciolta. I primi lampioni iniziavano ad accendersi, mescolando la loro luce con quella del giorno in ritirata.
Me ne andai al solito parco, e mi fermai davanti all’unico minuscolo pezzo d’acqua che c’era. Da qualche mese s’era riempito di nuovo.
Lo specchio rifletteva i rami dei tanti alberi che lo circondavano, ma uno di essi mi stava particolarmente a cuore. Non so bene il perché. 
Visitavo quel posto da qualche anno ormai, e quell’albero l’avevo visto spoglio, pigro, ma anche fiorente e solenne, e ancora stanco o mutevole. E lui aveva visto me. E non solo me. Era lì da cent’anni.
Entrambe le mie mani affondavano nelle tasche del cappotto, stringendo lembi di tessuto per tenersi al caldo. Alzando la testa vidi un uomo, sulla settantina. Barba e giubbotto grigi. Le sue mani affondavano nelle sue tasche. Incrociai il suo sguardo, e ci facemmo un cenno con la testa. Così venne verso di me. 
«Finalmente si è riempito» disse. 
Annuii sorridendo, e lui continuò.
«Sai, quando avevo la tua età, qui si facevano gare ogni domenica. Con modellini di barche, bada bene. Ma veniva a guardarle tutto il quartiere».
«Dev’essere stato bello – dissi – Io sono qui solo da qualche anno».
Il suo sguardo era fisso sull’acqua.
«Ho letto che tutto il parco verrà riqualificato» continuai.
«Così dicono – rispose – Spero solo che non tocchino troppo questo spazio».
«Le piacerebbe rivedere le gare?» Chiesi entusiasta.
Lui mi guardò sorridendo. Poi fece spalline, e con lo sguardo sempre fisso davanti a sé, disse: «Non per forza. A volte tutto ciò che ti serve è soltanto uno specchio d’acqua».
Ci salutammo, e lui s’incamminò verso l’uscita. Io invece rimasi lì ancora un po’. Avevo fatto più di mezzo passo e non ero in Norvegia. Non c’era nessuna pioggia a rinfrescarmi la faccia. Eppure quel minuscolo pezzo d’acqua mi donava la pace. 
Se non altro per una motivazione su tutte: esisteva davvero.

27 febbraio 2021 – © Riproduzione riservata

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