L’infarto
[di Fausto Bolinesi – medico di famiglia]
Il cuore non è il poetico contenitore di emozioni e sentimenti amorosi, ma il muscolo che con le sue contrazioni ritmiche pompa sangue, e quindi ossigeno, in tutti gli organi del corpo. Lo fa a partire da un grosso tronco arterioso, l’aorta, dalla cui origine si dipartono due arterie, la coronaria destra e la coronaria sinistra che portano il sangue al cuore stesso. Quando una di queste arterie coronariche, o uno dei loro rami, si occlude, il tessuto muscolare che viene da questo irrorato resta privo di sangue, e quindi di ossigeno e quindi muore. Questo è l’infarto la cui gravità dipende dalla estensione del tessuto danneggiato, dalla sede e anche dalla precocità dell’intervento terapeutico.
Le malattie cardiovascolari rappresentano la prima causa di morte nel mondo occidentale, così come in Italia dove si registrano circa 140 mila casi di infarto ogni anno. La mortalità è tuttavia diminuita rispetto ad alcuni decenni fa, grazie a nuovi trattamenti farmacologici e soprattutto alle tecniche di rivascolarizzazione messe in atto al momento del ricovero. La causa principale di occlusione di una coronaria è l’aterosclerosi, vale a dire la formazione di placche costituite prevalentemente da aggregati di lipidi e proteine che riducono gradualmente il lume del vaso che diventa col tempo anche più rigido. Finché l’ostruzione è parziale, o l’occlusione causata da un trombo dura poco, si parla di ischemia, cioè a valle della coronaria interessata non arriva sangue e quindi ossigeno sufficiente a soddisfare le richieste metaboliche; se l’ostruzione è completa, il tessuto a valle dell’occlusione “muore” e si ha l’infarto. Il sintomo tipico in entrambi i casi è il dolore al petto anche se l’intensità e la sede possono variare per cui la diagnosi di certezza è strumentale e si avvale dell’elettrocardiogramma (ecg), dell’ecocardiogramma e di analisi del sangue.
L’ecg permette di individuare due tipi di infarto, per uno dei quali è importante intervenire subito con l’angioplastica, cioè inserire un catetere in una arteria periferica e giungere fino alla coronaria occlusa che viene dilatata gonfiando un palloncino e inserendo un tubicino (stent) allo scopo di impedire la richiusura del tratto dilatato. Nei casi più gravi occorre ricorrere al cosiddetto bypass innestando nella coronaria un segmento di arteria o anche vena periferica che scavalchi come un ponte l’occlusione. Nei casi meno urgenti e gravi si può ricorrere alla sola terapia farmacologica che va comunque impostata in tutti i casi e consiste nella somministrazione di farmaci che sciolgano i coaguli (trombolitici) o che impediscano che si formino (antiaggreganti e anticoagulanti).
Si comprende l’importanza di prevenire l’aterosclerosi riducendo i fattori di rischio già noti e soprattutto l’importanza di accedere in un reparto o servizio di cardiologia in grado di eseguire, se è il caso, una angioplastica di urgenza. Altrettanto importante è garantire poi sul territorio la continuità assistenziale. Ma questa, è un’altra storia.
28 febbraio 2025 – © riproduzione riservata


