Le manovre che non ti ho detto

[di Ernesto Giacomino]

Tirano un sospiro di sollievo i 350 dipendenti dello stabilimento battipagliese della Cooper Standard, l’azienda produttrice di guarnizioni automobilistiche per la quale si era temuta la delocalizzazione della produzione (in Piemonte, si diceva, se non addirittura in Polonia). Dopo quattro giorni di blocco degli impianti da parte dei lavoratori parrebbe essere stato trovato un accordo tra azienda e rappresentanze sindacali per la gestione delle commesse, tale da evitare drammatiche riduzioni d’organico.

Notizia più che positiva, in questa masnada di esodi e mobilità e licenziamenti a brutto muso che stanno attanagliando la Penisola da un buon paio d’annetti. Un esempio di soluzione alternativa che dovrebbe far riflettere chi, su certi argomenti, ha preso il vizio di fare spallucce invocando la mannaia dell’inevitabilità, facendo della crisi un alibi per alzare i profitti “osando” manovre sociali che in altri tempi sarebbero impensabili.

Perché è innegabile come nello sfacelo che ci circonda ci sia una componente astrusa che spiazza in egual modo economisti e operatori di mercato. Crollano i consumi, i salari perdono potere d’acquisto, ma i prezzi – che con questi cali di domanda dovrebbero essere ai minimi storici dai tempi del baratto – continuano ad aumentare. E chiunque abbia sfogliato, fosse pure per caso o semplice diletto, un qualche manuale di macroeconomia, sa che questo rappresenta un paradosso.

C’è un sospetto di concausa, in questa crisi urlata come globale e indiscriminata; una mano imprenditoriale maldestra che poco ha a che fare con gli squilibri matematici di un modello di mercato, e molto col pilotaggio occulto e malato della distribuzione della ricchezza.

In un microcosmo come Battipaglia, per dire, l’evidenza parla chiaro. Esistono sicuramente imprese in difficoltà e imprenditori altrettanto; ma per talune situazioni dobbiamo parlare di imprese povere e imprenditori ricchi, ovvero di una malaimprenditoria col “grasso al cuore” che in tempi di piena s’è tirata in casa utili abnormi (leggasi: banche in stato di grazia e speculazioni sulle conversioni in euro dei prezzi al dettaglio), poi privatamente investiti in mattone e beni di lusso. E oggi che sarebbe ora di rimetterli in azienda, quei capitali, per superare l’impasse di liquidità generata dalla crisi, la scelta più immediata diviene invece il ridimensionamento della produzione e il conseguente smaltimento della forza lavoro ritenuta in eccesso. Cosicché il contraccolpo è, sì, un calo dei consumi per il crollo dei salari, ma perfettamente bilanciato – se non sorpassato – dall’alto potenziale di moneta rimasto nelle mani di chi, grazie al tesoretto così indebitamente accumulato, ancora può spendere. Guardiamoci intorno, no? Quei famosi “ristoranti tutti pieni” visti da chi ci governava poco tempo fa possono non essere propriamente un’allucinazione: il problema è che sono ristoranti – spesso, di lusso – e non supermercati. Sono negozi d’alta moda e non banchi di mercato, rivenditori di fuoribordo e non concessionari d’auto usate, distributori di tecnologie digitali all’ultimo grido (e al massimo prezzo) e non librerie o negozi di giocattoli.

D’altra parte l’analisi del crack di parecchie multinazionali locali (dal caso Finmatica allo scandalo Amato) fa uscire fuori drammi legati più a gestioni strampalate che a reali avversità di mercato. E adesso, a un territorio così depauperato del grosso delle sue risorse finanziarie, si ha pure la faccia tosta di presentargli il conto.

7 marzo 2013 – © riproduzione riservata

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