L’albero non fa il monaco

[di Ernesto Giacomino]

Parrebbe ufficiale, insomma: la Giunta ha destinato ventimila euro alla piantumazione di nuovi alberi a Battipaglia e alla rimozione dei monconi di quelli abbattuti. Era ora, si dirà adesso in coro: una mano che non solo ferma questo scempio in atto da anni, ma addirittura dà l’idea di voler rimediare. Poi, il perché rimediare oggi a una cosa che magari si poteva evitare ieri, e vabbe’, vallo a capire. C’è una zona d’ombra piuttosto estesa, nella gestione degli ultimi tagli d’alberi perpetrati in città: a partire da quelli rimossi “per sbaglio” durante i lavori di riammodernamento di piazza della Repubblica alle recenti, discutibili capitozzature di alcuni fusti in zona Palazauli e piazza Risorgimento. Pareri degli esperti o meno, voglio dire, a me suona tanto come una cosa tipo: avevo un’auto, l’ho schiantata di mia volontà contro un muro, mo’ vanno spesi soldi sia per il carroattrezzi che per comprarmene un’altra. Evviva.

Chiaro che sono divagazioni d’un non addetto ai lavori, eh. Di sicuro c’è altro, tanto altro. Di tecnico, di botanico, di urbanistico. Magari quegli alberi che c’erano prima li abbiamo tagliati non perché d’ingombro al cemento, non perché oltraggiosamente disturbanti la visuale da qualche finestra, ma solo perché vecchi. Esteticamente, intendo. Come dire: vintage, superati, fuori moda.

Tipo fosse passato, che ne so, un architetto stellato, un Bohigas, un Renzo Piano, e avesse detto: “e no, là c’è un platano verde petrolio, la palazzina di fianco dà sul marrone, che pacchianata è mai questa, abbattere di corsa. Poi magari fate una delibera e ce ne mettete di più intonati”. Un modo come un altro per ammodernare la città, insomma; dare quel tocco in più per attrarre il turismo: corriamo a Battipaglia, hanno appena piantato le betulle nuove, altro che quegli stantii pini millenari di Roma.

C’è dell’altro, però. E qui le intenzioni sono encomiabili: tra i vari progetti di riorganizzazione del verde pubblico c’è quello di piantare, nei giardini scolastici, degli alberi da frutto. Ché i ragazzi, insomma, comprendano sia il percorso di genuinità d’un certo cibo offerto dalla terra – abituandosi a un’alimentazione più sana – e sia il rispetto dovuto alla natura come fonte primaria, essenziale di sostentamento.

E ok: l’importante, però, è che i frutti di quelle piante restino simbolici, rappresentativi. Insomma: che non li mangino. Che li guardino e dicano: “oh che bella la mela, perfetto, ora vado a comprarla dal fruttivendolo”. Perché in una città con una viabilità caotica, scomposta, esasperata come la nostra, quelle due mezz’ore di traffico automobilistico a inizio e fine del mattino – ovvero, all’accompagnamento e alla ripresa dei figli – fanno più inquinamento dell’altoforno di un’acciaieria. Per cui, non sarò né un genetista né un nutrizionista, ma l’idea di generazioni future cresciute azzannando frutti farciti da polveri sottili un po’ m’inquieta. Non siamo pronti, per una serie Netflix sui mutanti battipagliesi.

Che poi, alla fine, è sempre quel discorso degli interventi congiunti. Incentivare il verde disincentivando lo smog, educare alla salubrità diseducando alla pigrizia. E magari, ogni tanto, concordare un abbattimento rinunciando all’imposizione. 

25 febbraio 2023 – © riproduzione riservata

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