La sindrome di Wendy

[di Anna Cappuccio – psicologo*]

Chi di noi non conosce Wendy, il personaggio del racconto di J. Barrie, Peter Pan? La ragazza dolce e affettuosa, sempre attenta alle necessità dei suoi fratelli e dello stesso Peter Pan? Eppure la sindrome di Wendy è ben lontana dalla dolcezza carezzevole dei ricordi d’infanzia, e rimanda, invece, a un baratro profondo e doloroso dove l’accudimento e la cura dell’altro sono diventati una trappola infernale da cui è sempre più difficile uscire. L’espressione indica, infatti, quelle situazioni in cui la persona tende a proteggere, accudire e soddisfare l’altro, molto spesso idealizzato, mettendo da parte i propri bisogni. Attua sistematicamente comportamenti materni e protettivi per gratificare il partner o le persone a cui vuole bene: genitori, figli, amici cari, non ascoltando e non facendo valere le necessità fisiche ed emozionali. Il prendersi cura dell’altro si concretizza senza costrizione, ma volontariamente e con consapevolezza, a volte anche con gioia. Questo perché l’accudimento fa sentire utili, importanti e gratificati, oltre a rassicurare sul proseguimento della relazione. Le persone con sindrome di Wendy manifestano insicurezza e una bassa autostima, per questo hanno bisogno di un perenne consenso e dell’approvazione da parte degli altri per loro significativi. All’interno della relazione tendono a scegliere partner difficili e problematici oppure persone bisognose, dipendenti e immature. In altri casi ci si lega ad uomini manipolatori che tendono ad approfittare del bisogno di approvazione e della paura della solitudine. Le relazioni sono mantenute dalla convinzione che non si è degni di amore e che si potrà essere amati solo con una profonda dedizione all’altro che, inconsapevolmente, si vuole mantenere sempre bisognoso. La guarigione e l’autonomia dell’altro, soprattutto del partner, vorrebbe dire, infatti, diventare inutili, aprendo la porta ad un possibile abbandono; abbandono che di fatto spesso avviene per sfuggire da un accudimento soffocante e sproporzionato. 

La cura dell’altro colma un profondo vuoto affettivo e relazionale, derivato spesso da uno stile educativo che ha teso a responsabilizzare troppo precocemente il bambino, prima che avesse sviluppato un’adeguata maturità affettiva. L’iperprotezione, inoltre, ha portato a un blocco nell’autonomia e nell’indipendenza e a una continua ricerca di autostima attraverso l’altro. Per questo per molte donne è difficile percepire la disfunzionalità del proprio comportamento e la totalità del proprio sacrificio. Chiedere aiuto, però, permette di cercare le cause che hanno innescato la personalità salvatrice, gli abbandoni vissuti, le separazioni affrontate. Chiedere aiuto permette di abbandonare il senso di colpa se non si è sempre disponibili e tirare fuori la rabbia negata e accumulata interiormente per paura delle conseguenze sull’altro. Chiedere aiuto vuol dire riuscire a riappropriarsi dei propri spazi interiori e dei propri desideri e a vedere se stesse come persone di valore e meritevoli di amore, di un amore finalmente gratuito e incondizionato.

*psicologo clinico, psicoterapeuta

29 ottobre 2022 – © riproduzione riservata

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