La rete | di Iole Palumbo
Il muro di recinzione, rivestito in pietra e cocci di ceramiche colorate, aveva conferito all’edificio un moderno e raffinato ammonimento a non oltrepassare il limite. La vecchia casa di famiglia, cui non era più concessa una minima occhiata all’interno, trasmetteva a chi vi transitava nelle vicinanze un senso di imponenza assolutamente estraneo a quello che aveva rappresentato in origine. Prima, a circondare il giardino, che assomigliava più a un orto, c’era una rete metallica a larghe trame, rivestita di plastica consumata dal sole. Più che a dividere, la rete, serviva a connettere. Nessun segreto era mai potuto rimanere celato tra le case confinanti. Poteva succedere che gli abitanti del vicinato non si salutassero per qualche periodo, ma certamente tutti avrebbero saputo se qualcuno quel giorno avesse fatto colazione più tardi del solito.
Con Bea ci eravamo certamente incontrate presso quella rete, anche se non ne avevo più alcun ricordo, sembrava che ci conoscessimo da sempre. E quello era rimasto il nostro posto. “Ci vediamo alla rete” era un appuntamento senza orario per pianificare il pomeriggio o condividere una scoperta, non appena le occupazioni della giornata terminavano. Alla rete rimanevamo avviluppate in ore di ragionamenti d’una sacralità maggiore delle riunioni di gabinetto governative. Senza quelle discussioni oggi sarei una donna diversa.
Le crisi d’identità adolescenziali su di noi erano scivolate come una ballerina sull’olio d’oliva. Perché eravamo sempre insieme a fronteggiarle. Se Bea amava Bryan Adams anche io lo ascoltavo da mattina a sera, se Bea tagliava i capelli come le teenager di Beverly Hills, anche io mi trasformavo in una di loro; e se Bea imparava ad andare sui pattini io non potevo fare a meno di allenarmi con le rotelle ai piedi ogni giorno. Del resto era impossibile resisterle, con i suoi grandi occhi nocciola e il nasino delicato, qualsiasi scelta operava per il suo look o per i suoi passatempi, sembrava naturalmente la più adatta per chiunque.
Forse per questo ritenni scontato lasciare la ginnastica dopo dieci anni per dedicarmi alla pallavolo, seguendo lei. Mi sentii subito divampare le guance quando vidi per la prima volta le mie gambe magre e lunghe spuntare dal pantaloncino della divisa. Un fenicottero rosa in attesa di spiccare il volo. Eppure quelle gambe sembravano fatte proprio per saltare sotto il pallone. Riuscivo a colpirlo più in alto di tutti e per questo a spingerlo a terra, proprio dove non c’era difesa. Mi guadagnai a sorpresa un posto nella squadra e mi sorpresi, quella sera che il coach me lo comunicò, che poi Bea non venne a chiacchierare alla rete. Rimasi ad esultare da sola: disse che aveva mal di testa e chiuse il discorso. La partita che segnò il nostro primato nel girone delle scuole fu indimenticabile. Facilmente doppiammo il punteggio degli avversari e chiudemmo il match. Io non schiacciai una palla, le alzate e i cinque erano tutti per Bea, il nostro capitano. Non riuscii a trattenere le lacrime quando mi accorsi della complicità di sguardi tra lei e l’alzatrice. Non avevo capito perché quest’ultima aveva preferito tirare la seconda palla nell’altro campo invece che a me, lasciandomi sotto rete come un uccellino senza la sua pappa.
Durante una delle nostre infinite domeniche, mi rinfacciò di aver scelto di studiare al liceo solo per stare assieme. Lei odiava il latino e il greco, pur essendo la più brava della classe. All’esame ci era toccato tradurre un passo di Tucidide. Un terribile pronome nel terzultimo rigo mi aveva tenuto incollata al banco fino allo scadere del tempo, costringendomi alla fine ad alzare bandiera bianca. Mi era costato due punti sul voto finale. Alla mia richiesta di aiuto Bea aveva risposto che neanche lei era riuscita ad interpretare la frase. Anche se poi il suo punteggio era stato il massimo.
Ci siamo rincontrate dopo anni al matrimonio di un compagno di scuola. Lei era di ritorno da Berlino, dove aveva tenuto una conferenza per presentare i risultati della sua ultima ricerca sulle malattie autoimmuni. Il suo sguardo più maturo ostentava la stessa sicurezza di un tempo. Era molto attraente nel suo tubino e con i tacchi a spillo portati senza la minima esitazione. Parlava e catturava magneticamente l’intero uditorio; si muoveva come se stesse tenendo una lezione ai suoi assegnisti. Sapeva che, in quel momento, gli uomini che la ascoltavano avrebbero finto di appassionarsi anche alla fisica quantistica pur di avere un attimo di attenzione. Per lei era naturale che fosse così, era abituata a sortire lo stesso effetto delle sirene sui compagni di Ulisse. Mi chiese di fare due passi da sole, parlammo come facevamo un tempo. Mi disse: “Sono così sola in questo periodo, domani aspettami di nuovo in giardino, ho bisogno di tornare da me stessa”.
29 maggio 2021 – © riproduzione riservata