La città | di Lucio Spampinato

La città si svegliò quando gli ultimi naufraghi della notte avvistarono per primi l’alba: gente ancora nelle scarpe di ieri, attardatisi fra lipidi e alcol, lavoratori nei vestiti da lavoro del domani, davanti a un bar a prender coraggio, prima di saltare a bordo del camioncino dei rifiuti. Rintoccò un orologio di campanile e si udì sino alle alte torri merlate del Castelluccio; da lì, l’Oriente nebuloso che aspettava il sole essendo una cortina grigio fumo che abbracciava gli Alburni di una coperta d’acqua e latte di mandorla, si vide un treno che avanzava da Sud e penetrava la città come un sesso o come un fiume che passa da parte a parte una terra di case e di gente, senza fermarsi, senza nessun rimpianto. Un altro treno, dalla direzione opposta, scaricò alcuni cuori e le loro anime al seguito nella stazione ancora illuminata che si dispersero a raggiungere un caffè, una casa, un affetto o forse un letto per scavalcare il mattino. Persino l’ultimo addetto alle consegne aveva smesso di lavorare, vincolò la bici elettrica a una transenna pubblicitaria con tre catenacci, prima di lasciarsi alle spalle la notte, le pizze, i panini, il suo non contratto di lavoro. Scomparve oltre la soglia buia di un vecchio caseggiato, in cerca di sonno, a sognare la patria e a dimenticare le speranze tradite. 

Il giorno faticava a venir fuori! Ad un tratto, qualcosa come un raggio bucò la coltre di cumuli e la città prese luce quel tanto che bastava perché i crepuscolari lanciassero l’ordine di disattivazione del sistema di illuminazione pubblica, sorprendendo passanti stupiti di aver visto l’istante stesso dello spegnimento; come una Creazione al contrario, come una fotografia a sorpresa che li colse con un guinzaglio in mano, con un cornetto in bocca oppure mentre andavano al laboratorio di analisi. Tutto si mise in moto; il traffico che all’inizio si riconosceva dalle luci dei fari come un’infinita striscia luminosa, più tardi si mostrò chiaro come un serpente che appariva e spariva, strisciando fra le traverse degli isolati. Alunni e genitori affollarono i cortili delle scuole e dietro una palestra i ragazzini delle medie avevano trovato uno spazio franco per parlare; qualcuno fumava. Appena la città cominciò a muoversi con i furgoni del latte, i camioncini dei fornai, le commesse dei negozi, le donne affacciate ai mille balconi in attesa di un segnale, i dipendenti dei caffè  del centro, gli impiegati del municipio e quelli delle banche, lo spirito del luogo si lasciò alle spalle la sua custodita e si allontanò per le colline, fra le giovani basse erbe, i bovini con campanacci sonori, i cercatori di lumache e di funghi, i camion del movimento terra che risalivano la collina a caricare rena dal cuore della montagna sventrata, da trasformare in nuove case in pianura. Perché la periferia del suo centro abitato cresceva! E vagò per un poco, si diffuse indugiando, fino a raggiungere i Campi Elisi. Qui, si sentiva la presenza di tutte le anime passate che un tempo avevano affollato la sua città, affacciandosi dagli stessi balconi, frequentando le stesse scuole, andando ogni giorno negli stessi uffici, servendo agli stessi caffè, facendo partire gli stessi treni, costruendo le stesse case.  Le immaginò tutte con dolcezza, restando a contemplare la vita. Tornò solo a sera, quando il clamore del giorno sembrò placarsi. I viaggiatori dell’ultimo treno videro nei vani delle finestre la vita semplice dentro le case illuminate. E l’elegia di quegli interni fu come un tonfo nel lago del loro cuore.  Finché i primi navigatori della notte ricominciarono il giro dei bar, dei distributori automatici, delle panchine, in attesa del prossimo, inevitabile naufragio.

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