Jole | di Sofia Del Borrello

Il suo nome era Jolanda, ma tutti la chiamavano Jole, perché ai suoi tempi si andava di fretta con le parole e soprattutto i nomi erano, spesso, appena accennati. Ma tanto bastava. Jole si era sposata per procura a diciotto anni con Gaetano che dall’America non era potuto tornare, vista la vastità dell’oceano e la pochezza dei mezzi. Per tre anni aveva fatto la vedova bianca aspettando che questo marito, conosciuto grazie ad una foto del suo profilo obliquo, in cui sembrava Clarke Gable, le inviasse insieme alla lettera mensile “Cara Jolanda, sposa cara…” anche i soldi necessari per il viaggio, visto che lei aveva accettato questo compromesso di matrimonio, soltanto perché voleva vivere a Nuova Iork e scappare dal suo triste paesino, pieno di inverni scuri e ombre lunghe. Invece, sul finire dell’autunno, non arrivarono più nemmeno le lettere. E in primavera arrivò la notizia che Gaetano era morto di polmonite. Jole pianse a lungo, non tanto per la perdita del marito, quanto per quella del sogno americano a cui teneva più che al primo, visto che ancora viveva con i suoi genitori e due sorelle, in una casetta al centro del paese, col pavimento di terra battuta, illuminata con lampade a petrolio e senza acqua potabile. 

Pianse, ma nel frattempo si organizzò. Imparò a cucire dalla sarta del quartiere, a “mettere i punti”, come allora veniva definito chi lavorava con stoffe e ago: alla luce del lume, imbastiva e faceva orli, attaccava bottoni, rifiniva asole. 

Quando la sua maestra di cucito morì, non pianse affatto, perché non aveva tempo visto che dalla sarta, zitella senza eredi, aveva ereditato non solo la macchina da cucire a pedale, ma anche tutta la clientela, composta per lo più da maestre, mogli di dottori e spose. Lei dal suo canto, rifiutò ostinata tutte le proposte di matrimonio che le si presentarono negli anni a seguire, perché tutte prevedevano la residenza in paese. Nessun espatrio. Se doveva restare in quel posto, preferiva starci da sola, da vedova zitella: un marito come quello di sua sorella Mariuccia, sempre ubriaco e manesco o come quello di sua sorella Richetta, stupido come una capra, con tutto il rispetto per le capre, proprio non lo voleva. Il suo lavoro le bastava per procurarsi ciò di cui aveva bisogno, senza dover dipendere da un uomo. 

Quando iniziò a diffondersi un po’ di benessere si trasferì con la madre ancora viva, nell’appartamento avuto in permuta dall’impresa di costruzione, alla quale avevano ceduto la loro casetta e l’orto. Pavimenti in graniglia di marmo, mobili in formica e addirittura un forno a gas. Un televisore e nel televisore l’America. L’America e il suo sogno. Jole passava ore intere seduta su una seggiola di fronte a questo nuovo elettrodomestico, rapita, sedotta, impossessata. Per un po’ trascurò orli e pedane, e si  lasciò ammaliare da gente che cantava e ballava sotto la pioggia, da auto enormi, case enormi, famiglie enormemente felici. Tutto talmente ostentato ed esagerato che lei non ci credette: il sogno americano era come un circo, come una giostra, bello per i giovani e per gli ingenui, ma non per lei. Non più. 

Quando fu sazia di immagini, tornò in sé e riprese a cucire con la sua nuovissima Singer: la sua serenità appagante era certamente il segno che aspettava dalla vita.

31 luglio 2021 – © riproduzione riservata

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