Indietro tutta

[di Ernesto Giacomino]

Ci sono le carte e le parole da un lato, le sensazioni dall’altro. C’è la macchina politica che asserisce, rassicura, controbatte, smentisce; e quella pratica, di noi cittadini, che quotidianamente sbandiamo e ci abbracciamo rovinosamente a un malfunzionamento, una lacuna, un’inefficienza. A problemi che risultano irrisolvibili pur se apparentemente d’una semplicità da sussidiario di terza elementare. E che ti condizionano la giornata più del fisiologico, del dovuto, del naturale. Della famosa eccezione che conferma la regola. 

Non s’entra nel merito delle materie che non si conoscono, e ok. Se un vicolo ha voragini nell’asfalto o i marciapiedi a pezzi ci sarà un impedimento, un cavillo, un motivo istituzionale che ne ritarda la riparazione. Se nella perenne attesa d’una nuova illuminazione ci sta venendo sempre più a mancare quella vecchia ci sarà una qualche stortura imprevista nella rete di distribuzione energetica.

Senza colpe, ci dicono. Senza trascuratezza, senza mancanze. Roba imprevedibile, incidentale. Cose che capitano, la fatalità eccetera: o ci crediamo, insomma, o ne impazziamo.

Il discorso è che, responsabilità o meno, agli occhi dell’osservatore medio Battipaglia dà spesso l’idea d’un vecchio barcone che galleggia per sbaglio. Che, voglio dire, sarà pure la tecnica del brutto anatroccolo, mi spenno oggi per apparirti un cigno domani, ma al momento tutto il corollario parla d’una deriva difficile a tamponarsi: miasmi dai rifiuti, traffico ingovernabile, micro-cantieri alla giornata, mura imbrattate, erbacce sul verde, guapperia per strada, indisciplina e impunità diffuse tra chiunque: automobilisti, pedoni, uomini-talpa e uomini volanti.

Chissà, poi, se questo sentore d’imminente affondamento sarà davvero per cause naturali, per uno di questi mulinelli di corrente sui fondali che d’estate fanno sfracelli, o piuttosto per l’azione congiunta di un tot di braccia ben coordinate che s’ingegnano quotidianamente ad afferrare lo scafo e tirarlo sotto. Non perché una città che imbarca acqua possa in qualche modo far comodo a qualcuno, quanto per il fatto che abituare la gente al rilassamento, alla tolleranza sulle omissioni, alla deresponsabilizzazione con quel “nun da’ retta, ce sta chi ce penza” magistralmente cantato da Pino Daniele, la rende di parecchio meno esigente. Più lassista, accontentabile, tacitabile.

A lungo andare ne usciamo tutti meno pignoli, no? Ti abitui, ti assuefai, metabolizzi nel sangue questo stato delle cose come sintetizzando una proteina particolare che ti spaccia l’aberrazione per normalità. Cosicché accetti la doppia fila perpetua su via Mazzini, i lampioni morti in zona Sant’Anna, la tripla rotatoria in cinquecento metri di variante, la svolta controsenso di qualunque macchina sulla salita di via Stella o al bivio da via Istria su via Roma, i parcheggi prenotati dai “vip” e occupati con sedie e cassettini, l’assillo dei parcheggiatori abusivi, le file di vuoti di birra abbandonati per strada, gli schiamazzi notturni di qualche locale con gestore influente.

Che se non la facessero già a Campagna, la famosa “chiena”, dovremmo davvero provare a trasferirla qua. Con la differenza che, anziché da sola acqua, dovremmo farci inondare anche da parecchio detersivo.

30 luglio 2022 – © riproduzione riservata

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