Incomprese

[di Ernesto Giacomino]

Centosessantamila euro per riqualificare le “Comprese”. Che sono alle spalle di piazza della Repubblica, per cui si spera che quest’opera annunciata non sia un continuum degli attuali lavori, e soprattutto che stavolta il verbo “riqualificare” sia utilizzato nell’accezione giusta.
Sia chiaro: non è una polemica gratuita, ma dopo mesi di cantiere aperto, traffico paralizzato e pedoni a rischio strike tutto ci si aspettava fuorché la stessa piazza di prima ma ripulita – distrattamente, nevvero – dagli alberi. Come dire: bello il tentativo d’emulazione in scala della spoglissima piazza Dam di Amsterdam, ma rammentiamo che là non se la giocano tanto sulla bellezza architettonica quanto sul fatto che intorno ci siano il Palazzo Reale, la Nieuwe Kerk e il museo delle cere di Madame Tussauds. Per cui, ecco, a piazza riaperta difetteremmo comunque di quel minimo di frequentazione turistica che darebbe un senso ai sacrifici fatti.
Comunque no, in realtà a me piace parecchio, il verbo “riqualificare”. Perché, fateci caso, è bello roboante e impegnativo, ma nella sostanza non dice niente. “Ti do una nuova qualifica”: sarebbe? Qual era quella prima? E chi me l’aveva data? Cioè, è tipo un organigramma d’una multinazionale, che t’assegno mansioni diverse e superiori col buffet di festeggiamenti per la promozione e il ritocchino al rialzo in busta paga? No. Una piazza è una piazza, un quartiere un quartiere. Non è che siano una qualifica, un mestiere. Sono, più che dignitosamente, essenza. Per cui i verbi da utilizzare sarebbero altri: riparare, ammodernare, ristrutturare. Conservare. Rispettare.
Le “Comprese” in realtà esistono nel cuore e nella memoria storica dei battipagliesi, ma strutturalmente – e dunque al di là d’aver rappresentato il big bang d’una realtà economica e demografica che nei decenni avrebbe stupito l’Italia – oggi per il grosso sono tutt’altro. Pochissime le palazzine ristrutturate rispettando i canoni estetici dell’epoca; tante quelle divenute, ciascuna con un suo stile, costruzioni residenziali anonime e comuni nell’onda solita del cemento cittadino. Colpi di spatola e piccone a smantellarne, insomma, non solo pareti ma l’intero spirito – storico, solidale, pioneristico – che ci ha albergato dentro per oltre un secolo e mezzo. Per carità: nessuna colpa a chi l’ha fatto, o conti in tasca a chicchessia per come s’è scelto un intonaco, o un infisso, o un balcone anziché l’altro. È che ci si chiede, semplicemente, se un’opera di vera conservazione del tutto non si fosse potuta cominciare già anni orsono con un’azione congiunta tra privati e amministrazione. Seguendo una direzione concordata e comune, eventualmente con una politica d’incentivazione e uno sportello tecnico dedicato. Confluendo il tutto in uno scenario urbano, e in un impatto visivo ed emotivo, che oggi sarebbero stati assolutamente diversi. E ben più significativi
Che poi, è ovvio, ben vengano i lavori su strade e marciapiedi, sull’illuminazione, sull’eventuale installazione di targhe o monumenti. L’importante – tenuto conto dell’eccezionale valenza simbolica dei luoghi in cui si va a intervenire – è che siano il vestito della giusta misura per un corpo che, colposamente o meno, porta i segni d’una chirurgia estetica non sempre riuscita.

7 maggio 2022 – © riproduzione riservata

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