In treno | di Crescenzo Marino

Il boom economico sembrava una cosa oramai lontanissima. La chiusura di alcuni conservifici prima, la progressiva contrazione dell’attività dello zuccherificio poi e la riduzione del lavoro al tabacchificio S. Lucia avevano provocato una grave crisi economica, da cui nessuno si sentiva escluso. La rivolta popolare dell’aprile 1969, nonostante il sangue innocente versato, non aveva purtroppo avuto gli effetti immaginati e da tutti auspicati. Luciano, che aveva poco più di vent’anni, anche per questo decise di andar via da casa, dai suoi affetti più cari, dalla spensierata giovinezza, da Battipaglia, il luogo che l’aveva visto nascere e crescere e che amava profondamente ma che ora non riusciva ad offrirgli un lavoro stabile e la certezza di un futuro sereno. 

Era fine giugno, l’estate svogliata e distratta tardava ad arrivare, quando Luciano, come sempre in anticipo, arrivato alla stazione ferroviaria, un luogo a lui caro che fin da bambino credeva magico e dove i fantasmi dei ricordi e degli addii vi si mescolavano con l’inizio di centinaia di viaggi per destinazioni lontane, spesso senza ritorno, dopo aver fatto colazione al bar buffet e comprato il giornale alla vicina edicola affacciata sul primo binario, salì su uno di quei treni della notte. Uno di quelli che partivano prima dell’alba dal profondo sud Italia e arrivavano la mattina seguente, nella nebbia e nel freddo di un nord sconosciuto e incredibilmente lontano dal proprio mondo. Treni stracolmi della più variegata umanità: triste, gioiosa, malinconica, sconfitta, fiduciosa, dignitosa, ma senza alcun dubbio vera. Chilometri di spago attorno a valigie sempre troppo grandi, sempre troppo pesanti, sempre troppo cariche di sogni, di illusioni e di rimpianti. Piccoli scompartimenti che, a seconda dell’ora, diventavano prima salotto in cui conversare piacevolmente, poi tinello in cui pranzare e cenare allegramente e infine camera da letto in cui dormire beatamente. Sulle pareti lucide quadretti in bianco e nero, in alto portabagagli in ferro a più piani e una lucina blu, che si accendeva la notte. Ai finestrini tendine spesse, color kaki, per vincere l’invadenza e il calore dei raggi del sole che rincorrevano il treno; appena sotto, un tavolino richiudibile da tirar su all’occorrenza e una grande ceneriera di metallo satinato col coperchio. Tutun-tutun, tutun-tutun, il rumore delle ruote sui binari, spezzato da un fischio improvviso, a fare da sottofondo musicale per i passeggeri. Stazioni di città e paesi, a molti sconosciuti, si alternavano al mare ora azzurro, ora verde, a campi coltivati e altri abbandonati, a panorami mozzafiato a presepi immensi. La comparsa improvvisa di thermos che, appena aperti, inondavano la carrozza dell’aroma di caffè e accendevano sorrisi e sigarette. E poi finalmente il saluto di una voce metallica, l’odore ferroso dei binari della stazione d’arrivo, saluti, abbracci, qualche lacrima sul viso, il cuore in gola e pochi gradini da scendere per toccare con i piedi, confuso e frastornato, la terra promessa e con le mani l’inizio tanto atteso di una vita nuova e diversa, conservando però con cura, in fondo all’anima, la speranza di un dolcissimo ritorno.

19 novembre 2022 – © riproduzione riservata

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