In concorso d’opera
[di Ernesto Giacomino]
Chiaro che non entro nel merito manco con la punta del naso, ma le ultime turbolenze afferenti al contesto edilizio battipagliese m’hanno riproposto un’auto-domanda un po’ più estesa, panoramica, non su questi fatti in sé ma sulle regole che in generale governano la materia: perché, ogni volta, per fermare una costruzione che si sospetta irregolare, occorre aspettare che sia quasi finita? Settimane di disagio per traffico e passanti, problemi di viabilità, autogru e ruspe e rumori vari di cantiere fin dall’alba: e poi, quando si è finalmente prossimi a sbaraccare e tornare alla normalità, quando magari manca solo una mano d’intonaco, o le ringhiere, o gli infissi, o il portoncino caruccio d’alluminio dorato, zac: signori, tutto bloccato, sloggiate che qua mettiamo i sigilli.

La famosa barzelletta su Michelangelo, insomma: alle prese, lui, con gli ultimi ritocchi della Cappella Sistina, a un certo punto si ritrova sotto l’impalcatura le guardie svizzere che gli urlano:“A Michela’ cancella tutto, ha detto er Papa che che mettemo ’a carta!”.
La genesi, mancata, degli ecomostri: l’opera incompiuta e infruibile, l’ingordigia contro l’arte, la discrasia fra attuazione e ispirazione. Che un conto, è ovvio, è mettere in piedi un manufatto difforme da quello per cui c’è stata data l’autorizzazione, dove eventuali magagne possono vedersi solo a cose fatte. Un altro, però, è trovarsi di fronte a una cosa costruita in conformità a quanto concordato, e andare a contestare gli accordi originari. Voglio dire: davvero ce ne si può accorgere solo a quel punto, che c’era qualche misura da rivedere, qualche carta da controllare, qualche parere da acquisire? Perché, perdonatemi, non è mai bellissimo trovarsi piazzato in un quartiere, rione, frazione, un palazzo perfettamente finito ma con i mattoni a vista, o il piazzale lercio da ripulire, o quegli inquietanti rettangoli vuoti al posto di finestre e balconi. Per mesi, spesso anni. A volte per sempre. E il già discutibile aplomb estetico battipagliese di tutto avrebbe bisogno, oggi, fuorché dell’identico fascino d’un semi-caseggiato in attesa di sanatoria sulla litoranea di Praia a Mare.
Non sarebbe più semplice farli prima, certi controlli? Che ne so: io vado al Comune, chiedo una concessione, quello controlla e – se è tutto posto – me la dà. Poi però facciamo che il magistrato lo interpello subito, come passaggio ulteriore: dotto’, questo è il progetto, questa la concessione edilizia, studiatevi le carte ed entro un tot prestabilito di giorni datemi l’ok definitivo. Dice: e, vabbe’, ma quello il giudice quando blocca mica agisce d’ufficio, si muove su iniziativa di qualche controparte che è contraria a quella costruzione. Benissimo: allora giriamola stile pubblicazioni di matrimonio, una volta avuta la concessione edilizia la esponiamo in una bacheca comunale, diciamo: io parto con questi lavori in questa zona per questo progetto, chi è contrario parli entro trenta, o sessanta, o eccetera giorni, o taccia per sempre. E giù auguri, confettate e figli maschi.
È evidente, insomma, che bloccare qualcosa che non è ancora iniziato è sempre esponenzialmente meno costoso che farlo quando è già finito. Ancor più quando, a controversia risolta, il danneggiato non è mai soltanto chi ha vinto in tribunale.
17 maggio 2025 – © riproduzione riservata


