Il viaggio di ritorno

[di Ida Rosaria Napoli]

Era un’alba grigia di un tardo autunno, io mi ero alzato presto, spinto da un desiderio fremente ed indefinito di attingere, dai fondali della memoria, i ricordi per giustificare la scelta di essere lì, lontano dalla mia regione, la Campania, in una casa di riposo insieme con Dora, la mia compagna di vita. 

Da padre e marito attento, mi sentivo inerme ed incapace, da solo, di sostenere la condizione debilitata di mia moglie. Ero ottimista: avevo due figli che vivevano al Nord. La nostalgia mi prendeva l’anima, illuminava il mio bisogno di allontanarmi dalla mia terra per andare da loro. Razionalizzavo lucidamente il bisogno di trasferirmi e di godere del loro affetto nel mio ultimo scorcio di vita. Provavo una sensazione piacevole di felicità, ricordando la gioia di certi momenti vissuti con loro, i giochi, le corse sulla sabbia calda, i compiti nei lunghi pomeriggi insieme, l’odore del caffè e della merenda la mattina, la loro mano insicura che cercava la mia. Avvertivo una profonda quiete dentro e percepivo di riportare alla giusta misura il mio affetto per i miei figli, trasferendomi. Mi ero affrettato a riempire i pacchi dei vestiti miei e di mia moglie e a mettere nella valigia suppellettili, foto e ricordi della vita con la mia famiglia. I pacchi li avevo spediti, ma la valigia dei miei ricordi la tenevo stretta nella mano destra, nella sinistra stringevo quella di mia moglie, mentre aspettavo il treno. Percorriamo il tratto fino alla casa di riposo con le immagini del nostro vissuto che scorrono nella mente come una vecchia pellicola. La casa è ordinata, ma anonima. Mi affretto a disporre i miei oggetti personali di qua e di là, sulle pareti e sui mobili mentre mia moglie stanca, si è assopita. 

La dolenzia interiore mi passa quando i miei figli, a turno, ci ospitano a pranzo ogni domenica a casa loro. Sono domeniche festose per noi nonni, ma ho la sofferta sensazione di essere in bilico, come un funambolo su una corda. Il tempo scorre e il pranzo domenicale si svolge in un silenzio che fa rumore, che ci sussurra che, per i ritmi frenetici della vita di oggi, siamo un fardello, un limite alla loro libertà.

Quel prolungato silenzio, quella solitudine, quelle inutili attese di una visita mi tormentano. D’un tratto la paura e l’avvilimento accumulato mi spingono ad una resa incondizionata. 

È un giorno tempestoso, mi sembra tutto così grave, lascio in pace la coscienza dei miei figli nel turbinio dei loro impegni, afferro la valigia e la riempio delle mie cose. Ho già telefonato alla casa per anziani del mio paese, ci aspettano. Lì mi è consentito uscire, rivedere i miei vecchi compagni. Penso che mi prenderò cura dei fiori del giardino, che ritornerò a passeggiare nei luoghi consueti con i miei amici. Mi sento ancora utile, aiuterò gli alunni carenti in qualche disciplina. Evitiamo il gelo degli addii, ci salutiamo con calore, in silenzio. C’è il sole nella stazione di Bologna, dove prendiamo il treno che ci porta al Sud, lì dove è trascorsa la nostra vita. Stringo mia moglie a me, ci sediamo e, in quel viaggio di ritorno, guardiamo dai vetri il paesaggio fuggire via insieme a qualche illusione. I miei figli, come navi che tornano al porto, torneranno alla loro madre e a me. Torneranno a casa, lo sento, perché casa è lì dove ci sono gli affetti veri.

11 marzo 2023 – © riproduzione riservata

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