Il professore

[di Lucio Spampinato]

Il professore era originario di un paesino del Cilento. Sosteneva che per le sue simpatie marxiste era stato “sbattuto” per sette anni in Sardegna. E sicuramente la sua condizione di professore di liceo se l’era sudata! A sedici anni, lavorava presso una ditta che trasportava sabbia di cava per costruzioni e si era quasi tranciato un dito sotto un camion. In fondo, la rappresentazione che aveva di se stesso era quella del giovane del Sud che aveva fatto molti sacrifici per studiare e per dare una mano alla famiglia. Per questo, non mancava occasione per ricordarci la nostra fortuna a poter andare a scuola con regolarità e in un contesto tutto sommato tranquillo. Il professore piaceva alle donne. C’era una scintilla da eterno ragazzo nel suo sguardo che le invitava, fossero colleghe, mamme o amiche, a prendersi cura di lui; forse ne intuivano la bontà oppure la malcelata ingenuità. Si commette spesso un peccato di presunzione a considerare l’innocenza altrui. Eh, sì, perché ci sono due tipologie di innocenza: quella dei bambini e degli animali, che è ignara di ogni cagione, che non ha e non può avere malizia per definizione e quella di chi ha combattuto molte guerre, ha attraversato molte tempeste, ne è uscito vivo e ha compreso le miserie del mondo e , malgrado tutto, ha deciso di non far soccombere la Grazia che è dentro ognuno di noi di fronte alla ferinità che lo ha investito. Perciò, nel mentre le benevolenti lo trattavano come un bambinone, incapace di fare del male, il professore optava ogni giorno per un perdono operativo: perdono di ogni torto, maldicenza, pettegolezzo o sgarbo spedito al suo indirizzo. E così, nella sua pacifica accondiscendenza, godeva delle munifiche elargizioni di questa umanità affezionata e riconoscente che lo beneficiava sotto molteplici forme, sia fisiche che spirituali. Il professore era tipo da passare in lungo e in largo per le vie della città con al seguito una sua classe, spiegando ad esempio, all’ombra degli isolati fra via San Michele e via Plava, le battaglie dell’Isonzo, il crudele Cadorna, le micidiali corazze Farina, perché i tedeschi sono chiamati crucchi e finendo a recitare San Martino del Carso. A volte, caricava alcuni allievi sul suo vecchio Range Rover Classic a trazione integrale e insieme scollinavano sulla Castelluccia da dove era possibile vedere una città ancora giovane ma con mire espansionistiche verso il contado. Era capace, il professore, di farli sentire villani dei marchesi Pignatelli, emissari del margravio Bertoldo o cavalieri al seguito del Guiscardo, tanto riusciva a far vivere la storia in quei luoghi e quei luoghi e la storia nella loro immaginazione. Ora, a sessant’anni, su una Panda quattro per quattro, risale quelle stesse pendici chiedendosi dove siano andati tutti quei giovani cuori. Senza figli, si sente padre di quei mille ragazzi. Molti ancora gli telefonano, alcuni passano spesso a trovarlo e a raccontargli di successi e disfatte. E sente quiete, il professore, anche se la distesa di serre nella piana del Tusciano sembra ora un unico lago che abbaglia nel mezzogiorno e non distingue più le sagome austere dei vecchi casali sparsi fino a San Mattia. Sente forte la nostalgia di quelle anime, dei più acuti, dei più fragili, delle ragazze innamorate, degli impertinenti e ne sente l’assenza… e, dunque, nel cuore nessuna croce manca ed è il suo cuore il paese più straziato.

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