Il mio canto libero

[di Ernesto Giacomino]

“Je suis Charlie”. Lo slogan che da una settimana satura il web, la stampa, i media in genere. Un urlo di disperazione, la rivendicazione universale del diritto alla libertà di pensiero. Una corale dichiarazione di appartenenza, quasi sempre condivisa per sincero convincimento, ma anche con pericolose eccezioni di pura emulazione, di allineamento alla massa, di semplice desiderio di aumento dei “like” sulla propria vetrina di facebook.

Perché dire “Je suis Charlie” significa crederci. E quindi operare in direzione esattamente uguale e contraria a quella che ha generato la tragedia alla base di questo slogan. Combattere l’estremismo con la tolleranza, la paura con l’apertura. Ricordando che è soprattutto qui, nel “civilizzato” Occidente, che le barriere contro le diversità hanno generato i danni peggiori. Mezzo millennio di oscurantismo e inquisizione, come minimo. E l’Olocausto, Hiroshima, i gulag sovietici. Massacri in cui la parola Islam non la si trova da nessuna parte.

Per questo trovo fuori luogo il martellamento sulle comunità musulmane in Europa: “diteci che vi dissociate”. Che è un po’ come dire: “garantiteci che non siete tutti assassini”. Se esce fuori un poliziotto corrotto nessuno dubita dell’integrità della polizia. Nessuno ha mai cambiato religione sapendo dell’esistenza di sacerdoti pedofili. Nessuno pretende dai contribuenti onesti che prendano pubblicamente posizione contro gli evasori. Nessun tedesco che abbia voluto espatriare s’è mai sentito dire al check-in: “mi perdoni, ma per avere la carta d’imbarco dovrebbe prima rinnegare Hitler”. La pretesa di una plateale dissociazione sottintende comunque un dito accusatore, una presunzione di colpevolezza a prescindere. Il ricatto di doversi omologare al proprio pensiero a pena di emarginazione. Paradossale, come minimo.

Per questo, no, smettiamola, noi non siamo Charlie. Non lo siamo qui, fra concittadini, figuriamoci fra coabitanti della stessa metà di pianeta. Io nel mondo dell’informazione, della parola pubblica, ci sto per diletto, filantropia, pura passione. Non ho vessilli filosofici o idealistici da sbandierare o presunzione di cambiare le menti. Eppure non c’è settimana che un mio pensiero pubblicato, fosse pure il più innocuo e banale, non trovi oppositori spesso feroci. La libertà di espressione è bellissima, vero? Solo quando non ti tocca personalmente, però. Se succede, invece, parte la contestazione. La caccia al redattore, le offese, la solfa sulla deontologia, i servizi televisivi denigratori da parte del potentato di turno. Sarò pessimista, ma dubito sia chiaro a tutti che mostrarsi solidali sul proprio social network preferito e poi attaccare chi ha opinioni diverse non è commemorare le vittime del massacro del Charlie Hebdo ma esaltare i terroristi che l’hanno compiuto.

No: “Je suis Charlie” è un impegno che non sappiamo prenderci. Perché non serve arrivare ad avere religioni, culture, tradizioni diverse, per correre ai ripari con quel buon proposito chiamato integrazione. Il processo parte da prima, da molto prima. Dalla consapevolezza che nessuno, al mondo, dopo millenni passati a diventare padrone dei propri pensieri, può poi essere schiavo delle proprie parole.

16 gennaio 2015 – © Riproduzione riservata

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