Il giardino di Tore | di Iole Palumbo

Che esistessero delle città dove scendendo di casa non fossi sopraffatto da abbandono e solitudine lo avrei scoperto solo dopo anni. Quando ormai avevo lasciato il mio paese. Per sempre.
Quel pomeriggio non uscii certo col pensiero di rigenerami, ero esasperato da giornate infinite in un’estate cominciata troppo presto. Per il weekend mancava un’eternità e fino ad allora il mare potevo scordarmelo. Mi appoggiai a cavalcioni su quanto rimasto di un pino caduto quell’inverno. Con le pietre cercavo di colpire la scritta bianca su una lattina rossa di Peroni nell’aiuola di fronte. Il rumore dei condizionatori rimbombava nella testa fino quasi a scomparire e nella gola sentivo un odore di bruciato che non riuscivo a mandar giù. Quasi non ricordavo più il profilo delle montagne di fronte che invano provavano a liberarsi dalla nube di nera umidità che le soffocava. Mi guardavo intorno alla ricerca di una compagnia. Nella piazza di fronte la fontana che ormai non zampillava più da anni, era l’unica testimonianza del passaggio di una qualche forma vitale nelle ultime 24 ore, adorna com’era dei cartoni di pizza e bottiglie vuote. Fu in quel momento che ebbi l’idea di andare nella vecchia fabbrica dismessa alla fine dello stradone. Superare i copertoni e i frigoriferi in disuso, appena dietro la sbarra arrugginita, fu un gioco da ragazzi. Quello che mi trovai di fronte fu la conferma che i divieti degli adulti nascondevano sempre sorprese inenarrabili. Assaporai la frescura di una quercia secolare e corsi a prendere la bici che ancora aspettava di essere inaugurata da quando Babbo Natale l’aveva consegnata. Comunicai di fretta la mia scoperta ai ragazzi del palazzo e loro, per la prima volta, si lasciarono convincere ad abbandonare l’autobus volante di Fortnite e vennero a curiosare. Gli piacque talmente che destinarono il mio nome a quel cortile: “Il giardino di Tore”. Passammo i giorni a costruire percorsi per overboard e monopattini, un campo di calcio coi bastoni di legno e uno di pallavolo coi pezzi di un muro caduto. Perdemmo il conto del numero di ingressi giornalieri durante tutto il resto della stagione. Io ero l’unico che poteva decidere chi entrava e chi no. E ricordo ancora il giorno in cui il giardino aprì le sue porte alla ragazza con gli occhi color nocciola di cui invano avevo cercato di sapere il nome! Non la vedevo da quando si era accorta che la spiavo dalla finestra e aveva serrato le tende, seppellendo per sempre le mie speranze di avvicinarla.
Ci volle poco, però, a capire che la mia potestà su quel posto valeva zero: un catenaccio e un enorme cartello che un giorno trovammo piazzato all’ingresso. Sulla foto in 3d c’erano due torri di 10 piani e cento nuovi appartamenti in via di costruzione. Capimmo allora cosa significavano quelle parole che pronunciavano in continuazione i nostri genitori da qualche tempo “Riqualificazione aree dismesse”. Da quel momento tornammo per sempre ai nostri videogiochi.

Iole Palumbo

21 novembre 2020 – © Riproduzione riservata

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