Il feudatario 

[di Lucio Spampinato]

Prima del tramonto, il barone Adelmo Altogaldo degli Adinolfi ama prendere il cavallo e scendere giù per le pendici della collina, lasciando il castelletto che è la sua dimora, in cerca di suggestioni, di ricordi o forse di ispirazione. La sua collina ha quattro coste ricurve che scoscendono abbastanza dolcemente fino al Rio Furto. Quella di nord-ovest è da sempre riservata alla sua famiglia; comprende filari di viti, di meli, di ulivi, due per ogni varietà, e una fascia seminata a grano che pettinano il colle dalla cima fino al torrente. Più su, fra il castelletto e il bosco di faggi, c’è un orto. Adelmo cavalca nella sera e vede i ragazzi dei suoi ministeriali giocare fra l’erba alta, salire sui pioppi o nascondersi in qualche tronco d’albero caduto. E sorride! I loro genitori sono i Mainardi, i Gisolfi e i Landolfi, nel tempo pastinatori, parziari, livellari, enfiteuti e soccidari della famiglia del barone. Un tempo lui e i loro papà erano i bambini che giocavano fra le vigne e gli ulivi. Abitano piccole masserie poste a vari livelli dall’altra parte del colle. Calando al piano, il pensiero di Adelmo si perde all’epoca del suo capostipite Adinulfo, quando per correre in aiuto del principe Siconolfo si lanciò con i suoi fidati contro le truppe saracene tarantine di Apollafar che attaccò il territorio del Principato dal Varco del Lupo, venendo dalle Puglie. I conferimenti dei suoi mezzadri, che insieme ai fitti di alcuni immobili giù in paese sostengono il nobiluomo, non hanno mai avuto bisogno di una forma scritta e, a quanto pare, anche per questa generazione tutto seguirà naturalmente il patto antico. Quando Adelmo, pago di tramonto, di vento, di galoppo e di crepuscolo rientra a casa, per prima cosa accende il camino. Poi, lascia per un po’ i libri e i cani e prende la sua Panda; scende giù in paese passando davanti alle piccole masserie dei suoi amici, mezzadri, ministeriali ma piuttosto fratelli; passa davanti alle jeep e ai suv parcheggiati nei prati ed è felice per loro; saluta alle finestre i bambini che lo aspettano perché hanno sentito il rumore della sua marmitta scoppiettante. All’osteria, un piatto caldo, casereccio, e un bicchiere di vino sono il giusto viatico per qualche mano di tresette, fra le battute della gente semplice del posto, con allusioni a fatti che risalgono indietro anche di secoli. Fuori dall’osteria, si ferma ad ascoltare e ad annusare la notte. Legna che arde nei camini, nel buio qualche latrato o l’ansimare degli animali nelle stalle. E pensa! Ma è davvero possibile fermare ogni male del mondo aggrappandosi a quella collina, dove il tempo sembra essersi fermato, dove il bosco della cima difende la dimora e il piccolo fortilizio ripara le masserie?  Finché, stanco, rientra nella Panda, nella strada, nei ricordi, e, ubriaco di pensieri, torna a casa, ai libri, ai cani, al camino nella cucina antica dove forse anche questa volta il mattino lo coglierà alla sprovvista, con la prima lama di luce, senza avvisare.

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