Il bando del buco

[di Ernesto Giacomino]

“Causa inutilizzo cedesi parti funzionanti di città, ottimo stato, complete di custodia originale in similpelle e manuale di istruzioni in quattro lingue. Telefonare ore pasti, chiedere di Giovanni. No perditempo”. L’unico dubbio che ti viene, alla fine, è se si accetteranno solo pagamenti Paypal o andrà bene pure un contrassegno a merce ricevuta: “Buongiorno signo’, so’ il postino, c’è un plico dal Comune, se paga in contanti porti le monete che non ho resto”.

La diatriba sulla vendita del patrimonio immobiliare comunale è cosa nota, ormai: se ne parla da tre anni buoni senza spiragli di conciliazione tra chi la caldeggia e chi la avversa. Da un lato l’amministrazione comunale, che si scopre “possidente” di roba  più o meno utile e smerciabile (fabbricati e terreni in via Olevano e in zona industriale, più qualche cespite piazzato oltre i confini cittadini quali la famosa villa patrizia di epoca romana, sita nel comune di Olevano) e organizza aste semideserte per piazzare gli articoli; dall’altro chi vorrebbe che quel morsetto minimo di storia conservata nelle mura battipagliesi restasse al suo posto, ché se proprio esistono concittadini in grado di sborsare milioncini d’euro per il vezzo di appropriarsi di beni pubblici – paiono dire –  dessero una mano in qualche altro modo.

In realtà sono già parecchi, i Comuni d’Italia che hanno optato per la vendita di parte del patrimonio immobiliare per dare una parvenza di saldo attivo al conto cassa. Beni avuti in lascito, o rientrati nella disponibilità dell’amministrazione per cavillose questioni di vuoti ereditari, spesso consistenti in proprietà pericolanti e terreni ingrati, buoni solo a creare spese per mantenerli, ovvero – nell’impossibilità finanziaria di farlo – ad aggiungere degrado su degrado.

Il punto, alla fine, è proprio questo. Nel bailamme di pro e contro che si scatenano ogni qualvolta un provvedimento supera l’ordinaria amministrazione, il dibattito si sposta a prescindere sul “va fatto” o “non va fatto”, attenendosi strettamente al principio e senza chiarire sufficientemente la sostanza.
Ci è ormai chiaro, ad esempio, che uno dei lotti esposti in bancarella sarebbe la suddetta villa patrizia d’epoca romana, ricadente in territorio olevanese; e allora lì un’opinione adeguata – ascoltando le differenti campane – ce la potremmo anche fare: aveva ragione Adolfo Rocco a battagliare per tenersela a qualunque costo, o l’ex assessore Casillo, che lamentava l’assenza di fondi comunali per recuperarla e quindi s’auspicava l’acquisto da parte di un privato così che non crollasse per incuria?

Non è altrettanto chiaro, invece, del perché sia cosa non buona e ingiusta la prezzolata dismissione di altri beni sprovvisti di identico valore storico o artistico; fatto salvo, ovviamente, l’interesse legittimo di chi oggi quei locali li occupa e utilizza, e potrebbe trovarsi da un giorno all’altro privo di qualunque tutela sia riguardo al mantenimento delle condizioni contrattuali pattuite che al diritto stesso di occupazione.

Tolto questo, però, il grosso delle motivazioni che ostano alla messa all’asta degli immobili spazia su vari fronti, sospesi tra il sacrosanto e il surreale: c’è chi urla che con i prezzi attuali di mercato sarebbe un suicidio, chi ipotizza trucchetti da banconista per far accaparrare immobili ad amici a quattro spiccioli, e chi continua a guardarsi i reality fregandosene un po’ di tutto.

Tant’è che alla fine, parafrasando il Chiambretti sanremese, “comunque vada, sarà un insuccesso”.

12 ottobre 2012 – © riproduzione riservata

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