Freddo (po)polare

[di Ernesto Giacomino]

Da un lato si sfratta, dall’altro non si paga. Senza colpe attuali di chicchessia, è ovvio (su quelle pregresse, invece, andrebbe scritto un trattato), ma gli effetti collaterali di un Comune a secco di cash sono anche e soprattutto questi: l’impossibilità di interventi nel sociale. Il che, messo in ciottoli, significa che – raddrizza qua, rattoppa là – alla fine paga una sola categoria: gli indigenti. Quelli contrattualmente più deboli in questo eterno subappalto per la sopravvivenza, che non possono permettersi di sopperire alle mancanze della mano pubblica comprando gli stessi servizi dagli operatori privati. Un po’ come succede quando lo Stato è costretto a bacchettare questo o quell’Ente locale per farlo rientrare nel tetto di spesa previsto per un determinato servizio. Tariffe che s’impennano e qualità che cade a picco: ma di questo, a quelli che hanno soldi, frega poco. Semplicemente, loro, rinunciano alla coda in guardia medica o all’ufficio ticket dell’Asl. Alzano il telefono, chiamano, prenotano. Pagano. E pagando superano beatamente qualunque situazione di stallo: debito pubblico, cadute del Pil, recessioni e stagnazioni.
È di questi giorni la notizia del distacco della fornitura di energia elettrica alle famiglie che occupano i locali dello stadio Pastena e dell’ex scuola Salvemini, concessi temporaneamente in uso dopo gli sgomberi del 2013 degli alloggi di via Turco e via Manfredi. Poco meno di quaranta persone – tra cui bambini e disabili – che oltre ad avere sulla testa la spada di Damocle dello sfratto saranno costrette ad attenderlo al buio. Al di là della drammaticità dell’atto in sé, pare pure un’operazione dal retrogusto simbolico: l’ultimatum metaforico, la quiete prima della tempesta, la secca in spiaggia prima dello tsunami. A breve, difatti, seguirà lo sgombero esecutivo; e s’immagina non sarà una situazione semplice da gestire, sia logisticamente che emotivamente. Né per loro – gli occupanti – né per le forze dell’ordine che saranno chiamate ad allontanarli.
Un dramma doppio, giacché nell’attualità il Comune è anche privo di mezzi per finanziare una loro sistemazione temporanea in alberghi o altre strutture ricettive. Tutti dritti, cioè, da un tetto abusivo a una vista sul cielo stellato.
L’unico accorgimento riguarderebbe eventuali minori, per i quali, ove non intervenga una provvidenziale ospitata da parenti o amici, si starebbe vagliando la possibilità di un ricovero temporaneo presso le Case Famiglie locali.
Ma anche qui – oltre a tutte le considerazioni sull’impatto psicologico di una soluzione del genere – monta un enorme dubbio di fattibilità: sì, ok, diranno gli operatori sociali, accogliamo e ci stringiamo, ma con quale denaro? Cioè, se è vero che il Comune è già ampiamente moroso nei confronti di una cooperativa che gestisce tali strutture, al punto da mettere a serio rischio il sostentamento dei bambini precedentemente accolti, come farà a garantire i mezzi per accogliere gli eventuali nuovi ospitati?
La realtà è che quelle frasi lì, “dove mangiano in due mangiano in tre”, o “letto stretto coricati in mezzo”, sono solo proverbi. Ma per condividerli davvero, il letto e il mangiare, dovrebbero prima esserci.

8 maggio 2015 – © Riproduzione riservata
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