Fragilità (storia di una hikikomori) | di Ornella Cauteruccio

Dev’essere domenica. L’atmosfera stagnante e silenziosa della domenica mattina la raggiunge fin sotto le coperte, strappandola agli ultimi brandelli dell’ennesima notte popolata di nebbia e mostri. Ancora immersa nell’oscurità, attende che il maestro al piano di sopra inizi a suonare Debussy: dopo un’intera settimana di lezioni infinite e note stonate, può finalmente dare libero sfogo alla sua musicalità repressa, in una continua quanto inutile ricerca della perfezione, che durerà, come al solito, fino all’ora di pranzo per poi evaporare nel chiacchiericcio rassicurante della televisione.
È sempre il momento peggiore: l’inesorabile e lento ritorno alla realtà. Corpo privo di peso e consistenza che risale in superficie attraverso un mare denso e lattiginoso. Manca l’aria. Il respiro è mozzo. La prima luce ferisce gli occhi. Ma è ancora viva… purtroppo. La sua vita è ancora là ad aspettarla: ne avverte il dolore pungente, come carta vetrata che gratta via la pelle, sempre più in profondità. La sente mentre apre le tapparelle e si arrende al nuovo giorno. Dovrebbe arieggiare: spalancare la finestra e fare entrare aria nuova a prendere il posto di quella viziata e mefitica che l’accoglie al risveglio, ma anche stavolta non lo farà. Non possiede forza sufficiente a sostenere l’impatto con il mondo esterno: significherebbe riconoscere l’esistenza di una realtà alternativa e più solida rispetto al suo mondo, fragile e claustrofobico, dall’equilibrio precario così faticosamente raggiunto.
Sente il cuore che accelera i suoi battiti, minuscole gocce di sudore le incorniciano la fronte come una corona di ghiaccio. Le mani tremano, la luce del sole diventa fuliggine che invade i polmoni… deve allontanarsi subito da quella finestra, rintanarsi nel suo angolo, dove la luce non può raggiungerla, dove può riprendere a respirare normalmente.
Il maestro al piano di sopra smette finalmente di torturare Debussy e pensa bene di attaccare con Mozart: le note si rincorrono con brio e leggerezza; evocano l’immagine di bambini che si rincorrono dentro uno scenario invernale di campi innevati. Forse è solo il ricordo vago di un antico quadro fiammingo visto di sfuggita da qualche parte.
Quando è stata l’ultima volta che è uscita da quella stanza? Quando è stato il momento preciso in cui ha deliberatamente scelto di chiudere la porta e lasciare il mondo fuori, rifiutando qualsiasi forma di contatto diretto con quella chiassosa umanità di cui, suo malgrado, fa parte? Si pone spesso quelle domande, ma non trova risposte attendibili: solo frammenti di attimi vissuti, più o meno intensamente, e poi lunghi intervalli di buio assoluto.
Il professore di italiano, mentre la costringe a leggere il tema davanti a tutta la classe: man mano che leggeva, le sembrava che un orco crudele le lacerasse i vestiti fino a lasciarla completamente a nudo, solo con la sua anima, davanti allo scherno e all’incomprensione dei compagni. Buio. Lentamente riaffiora un’altra immagine: il padre che urla, batte forte i pugni sul tavolo, agita le mani come un ossesso, mentre si avvicina sempre di più. Ne può sentire l’odore, avverte il respiro sulla faccia e poi… di nuovo buio. Adesso è con quel ragazzo moro della terza A; è carino, non le dispiace. Deve mettersi alla pari con le sue amiche; deve avere anche lei una storia, altrimenti rimarrà sempre una sfigata, buona solo per essere presa in giro su quegli stupidi social. Lui incomincia a baciarla, dapprima dolcemente, poi sempre più forte. Non respira. Le mani sono ruvide e frettolose, hanno un lavoro urgente da sbrigare. Non c’è sentimento né alcuna pietà. Ancora buio.
Ecco, la musica è finalmente terminata. Dev’essere quasi ora di pranzo. Il tempo dentro la stanza è scandito da piccoli avvenimenti, sempre uguali: non c’è nulla che arrivi inaspettato a turbarne l’equilibrio. Tutto è perfettamente in ordine: ogni cosa al posto giusto e lei è l’unica padrona e regista delle sue ore. Non ci sono impegni e scadenze da rispettare né ordini da eseguire. Per troppo tempo ha usato le sue energie per soddisfare le aspettative, sia le proprie che quelle degli altri, per raggiungere gli standard di riferimento come se si trattasse di un prodotto ben confezionato.
Però c’era qualcosa in quel suo isolamento volontario, che suonava come una nota stonata. Mancava sempre qualcosa e quella mancanza continuava ad alimentare la sua inquietudine: era un piccolo tarlo che lavorava senza sosta nei meandri più reconditi del cervello e sfuggiva a qualsiasi tentativo di cattura.
Un rumore leggero dietro la porta e poi la voce stanca di sua madre. È roca: probabilmente ha pianto mentre le preparava il vassoio con il pranzo. Glie lo avrebbe lasciato come al solito accanto alla porta e poi sarebbe tornata più tardi a riprenderlo. Nessun contatto visivo, solo lo scambio di poche parole per assicurarsi almeno che fosse ancora viva.
Le mancava terribilmente quella figlia strana e incomprensibile, ma doveva concederle tempo ed aspettare pazientemente: ma cosa dovesse aspettare, nessuno era stato in grado di spiegarlo, e allora aspettava, semplicemente, consapevole che il tempo passato nell’attesa non sarebbe più tornato indietro.
Per un lungo istante, madre e figlia, rimangono immobili ognuna dietro la sua porta, nella stessa posizione, in ascolto. Il respiro all’unisono, le mani a cercarsi attraverso il legno ruvido. In vigile attesa: un’attesa infinita, l’una dell’altra, attraverso fiumi tortuosi di parole mai dette, di sguardi distratti e gesti scontati quanto inutili.
Le voci attutite della tv dal piano di sopra suonano come un ordine a rientrare nei ranghi: l’istante è terminato. La madre, curva e fragile come un ramo piegato dal vento, si avvia verso la cucina, mentre la figlia ritorna nel suo angolo sicuro, piega le ginocchia contro il petto e si culla dolcemente al suono di un’immaginaria ninna nanna.

26 febbraio 2022 – © riproduzione riservata

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