Fecce d’acqua dolce

[di Ernesto Giacomino]

Credo che col tempo l’irresponsabilità abbia seguito un percorso analogo e speculare alla libertà, molto probabilmente perché, tra un abuso e l’altro, ha finito per divenirne figlia putativa e diretta esacerbazione. Nel senso che se è vero – come da definizione storica – che la tua libertà comincia dove finisce la mia, pare sempre più conclamato che la mia irresponsabilità finisca dove comincia la tua. E questa ovvietà qua, se sbattuta nell’atmosfera d’una comunità ancora in corso d’educazione come quella battipagliese, diventa non più un’astrazione ma un fatto dichiaratamente pericoloso.

Quel fatto del cattivo esempio, in buona sostanza. Se nessuno controlla che paghi il parcheggio nelle strisce blu è chiaro che lo pago oggi, forse domani, forse anche dopodomani, ma poi inizio ad accodarmi alla fila di quelli che la monetina se la tengono in tasca piuttosto che farlo ingoiare a una macchinetta vuota e sconsolata.

Se i cestini portarifiuti per strada sono divelti e mai sostituiti, alla lunga non mi spreco più a centrare quello giusto per il vetro, o la carta, o la plastica: butto tutto, indistintamente, in quelli che trovo sopravvissuti durante il percorso. Se intorno casa cammino su marciapiedi pubblici infestati da gramigne, e poi cartacce nelle gramigne, e poi mozziconi nelle cartacce, del tizio che ci fa evacuare il cane senza paletta posso fregarmene la prima o al massimo la seconda volta, poi soprassiedo e guardo altrove.

E sta accadendo lo stesso – o è già accaduto, in verità – col Tusciano. Affacciarsi da quei quattro o cinque ponti disseminati in città e vederne le sponde è sempre più una finestra sul degrado, una perpetua scoperta archeologica di mini-discariche contenenti l’impensabile: dalle classiche buste di monnezza a sculture futuristiche intrise di giocattoli rotti, materassi lerci, pezzi di mobilio dismesso. In pieno centro, sotto l’occhio di qualunque passante, indigeno o forestiero.

Voglio dire: chiaro che la colpa non è dell’amministrazione, gli incivili siamo noi. Noi abitanti, residenti. Cittadini. Epperò: se un giorno, per sbaglio, un bambino ci ha lanciato un pupazzo, e non s’è mandato un addetto a rimuoverlo, qualcun altro ha poi creduto normale buttarvi un pallone squarciato. E, non arrivando ancora nessuno a ripulire, eccoli là: un terzo, e un quarto, e un quinto, eccetera. Ciascuno – un granellino alla volta – a perpetrare la tradizione: di sicuro tutti con zero senso civico, ma comunque testimoni d’un’evidenza che parlava d’incuria accettata e tollerata.

Francamente non lo so, se tra le varie opere di ripulitura periodicamente scalettate dal Comune ci rientrino o siano mai rientrate anche le sponde del Tusciano. Ma l’impressione è che se quei mucchietti di rifiuti ciclici, laggiù, non assumono mai le dimensioni di colline di lerciume, lo dobbiamo a quei pochi giorni l’anno di piena in cui l’acqua ha la forza di trascinarseli verso il mare.

Che sembrerà strano, ma pure le rive d’un rigagnolo rinsecchito come il Tusciano possono fare decoro. Serve però che il malintenzionato col rifiuto in mano abbia chiaro che sta andando a deturpare qualcosa, e non semplicemente ad aggiungere un’innocua, invisibile goccia d’inciviltà in un oceano preesistente. E per far questo, quando s’affaccia da quei ponti, deve trovarci pulito.

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