Edilizia ornamentale
[di Ernesto Giacomino]
Francamente non mi sovviene il periodo preciso d’installazione; né mi vengono in aiuto, in rete, atti ufficiali e proclami comunali dell’epoca. Ricordo però che s’era ai tempi del completamento del nuovo svincolo autostradale: per cui – mese più, mese meno – si parlerebbe comunque di circa quattordici anni fa.
La rotatoria col famigerato “obelisco di accoglienza”, voglio dire. Quella su via Belvedere, all’altezza del PalaZauli, all’incrocio con via Clarizia. Quella che un tempo era tutta di prato verde, oggi a chiazze, domani boh. Quella che non puoi più imboccare per il centro se ti fermi al distributore di carburante lì vicino, per cui l’inversione la fai più facile se prendi l’autostrada, esci a Eboli e te ne vieni da dietro. Quella su cui inizialmente avevamo messo lo sfiziosissimo cartello “I love my city”, soprassedendo sul fatto che nei paesi di lingua inglese la parola “city” sia sinonimo di “metropoli” o “capitale”, mentre per i centri urbani normodotati si usa più pragmaticamente il termine “town”. E va be’, non impediteci di sognare, nessuno può mettere Baby-ttipaglia in un angolo (semicit).
Non se n’è mai capita la valenza simbolica, di quel palo altissimo conficcato nel mezzo. Cioè, voglio dire: di cosa si tratti materialmente è più che evidente, è un lampione coi riflettori. Un po’ spropositatamente lunghino, magari; un po’ troppo “stele di Roma Eur che un occhiolino ai patrioti non si nega mai”, e ok: ma quello è. Però, se quei fari sono costantemente spenti, irraggiungibili, abbandonati, è chiaro che fin dall’origine l’intenzione del costruttore non era quella di illuminare ma di lanciare qualche altro messaggio profondissimo dritto al subconscio del cittadino, tipo: hai voglia a salire in alto, nessuna luce si accenderà se non è dentro di te. Oppure: non attendere l’allaccio, smonta il contatore, la tua energia sei tu. E altra roba da pelle d’oca del genere.
Il fatto che in cotanto monumento ci sia un sottotesto da interpretare – e da sovrapporre, quindi, alla facilità dell’evidenza – è confermato anche dalla fontana sottostante: una vasca enorme, un’intera circonferenza di erogatori allineati, e nemmeno una goccia d’acqua. Niente, mai. Manco a pagarla, trasportarla con l’autobotte, ordinarla al bibitaro, farla evocare da un qualche sciamano Navajo in pensione. Un’altra di quelle “fontane a secco” di cui stiamo diventando specialisti, dopo le carestie a piazza Aldo Moro e le spruzzate a targhe alterne a piazza Amendola. Una campagna di sensibilizzazione contro i danni da eccessiva idratazione, forse; una scelta para-ambientalista che da anni perpetriamo come un ammonimento a oltranza, un marchio di fabbrica, uno slogan pacifista: fate la ‘nzogna, non fate la guerra.
È che siamo fatti così: inventiamo, progettiamo, costruiamo per il gusto di farlo, poi si vedrà. Siamo quelli che al tavolo del ristorante tirano fuori la carta platino ma non la danno mai al cameriere: oh, guarda qua, t’ho detto che ce l’ho, vorresti pure che la usassi?
Una chiosa seria, in ciò: ero certo, cinque anni fa, che l’intitolazione di quel posto a un concittadino illustre come Luigi Gambardella avrebbe fatto da sprone per mettere seriamente in funzione il tutto. Ma chissà, magari anche questo è un modo per onorarne la memoria: facendone sentire la mancanza.
28 giugno 2025 – © riproduzione riservata


