Di un certo livello | di Gabriella Pastorino

28 novembre, secondo giovedì del mese. Il taccuino segnava R. C. riunione club. Marida sorrise, di un sorriso compiaciuto. Aveva appena compiuto settanta anni, da trenta era socia del club, del quale era stata ben due volte tesoriera; per il suo diploma di ragioniera, naturalmente… e l’accenno di sorriso si definì meglio. Finì la tazzina di caffè, indossò il giaccone impermeabile, si ravvolse al collo la sciarpa di lana leggera ed uscì. Cominciava la sua giornata da “signora di un certo livello”, come la quasi contessa Aria Dolta di Gommasilico definiva le socie del club. Marida annuiva ogni volta, ogni volta misurando per un attimo il livello dal quale lei, Maria Ida Boccia, era partita. Alle 18 era in via Cadorna 35, al club. La tavola di mogano stretta e lunga che le accoglieva durante le riunioni era tutta sossopra, con fili argentati e grosse strisce di carta adesiva piene di stelle dorate. Qualcuno le mise in mano un rotolo di fili mentre una voce annunciava: “La Marida fa la pioggia”. Non era difficile “fare la pioggia” e Marida si mise all’opera, non prima di aver sorbito lentamente una tazza di the caldissimo.
Lavoravano tutte e chiacchieravano. Marida annodava fili d’argento e ascoltava. Come ogni anno, da metà novembre sino a Natale si disquisiva sui pregi e difetti dell’albero e del presepe. Iniziò Assunta con la nobiltà del significato del presepe e Marida automaticamente guardò Leila che subito, come faceva ogni anno da quasi mezzo secolo, attaccò a prendersela con l’America, volgare chiassosa come un abete sovraccarico. Marida pensò “Che palle!”; sapeva parola per parola quel che avrebbero detto sia Assunta sia Leila e un minuto dopo Giuliana e Lia.
Nel club, signorile, rinomato, mai niente di trascendentale – modesti progetti di modesta cultura, molti sorrisi, qualche rara risata – lei ci stava benissimo, si sentiva in pace, in uno stato d’animo vicino alla felicità. Come ogni giovedì, prima delle otto avrebbero preso due dolcini ciascuna, avrebbero ricordato quanto programmato di lì a due settimane e poi tutte a casa. A casa lei avrebbe messo qualcosa nel fornetto e dopo cena, ben ravvoltolata nel pigiama e nel piumone, sarebbe scivolata pacificamente da una qualsiasi soporifera trasmissione televisiva in un sonno pesante e sereno.
La sua amica Sonia, prof. di matematica in pensione, le descriveva spesso le sue giornate e Marida pensava che doveva aver piazzato una telecamera nella sua casa, tanto il tempo scorreva identico per le due donne. Ma mentre Sonia raccontava fra cento sospiri la sua solitudine, prendendosela con il Signore per la mancanza di un uomo purchessia, Marida ringraziava Dio perché mai un uomo aveva messo piede nel suo arioso bilocale cittadino. Che poi manco era del tutto vero: l’appartamentino, suo da quaranta anni, quasi al centro della civile colta fredda cittadina dell’Italia del Nord, era spesso attraversato da evanescenti fumose presenze maschili che Marida allontanava immediatamente, ma non prima che esse si fossero definite nella loro crudele sguaiatezza, nel loro violento potere assoluto, legato alle due banconote poggiate sulla mensola del falso camino di fronte al letto.
Dall’estate dell’esame di stato che aveva fatto di lei una ragioniera, per sette interminabili anni allucinati, nascosta in una specie di prigione e soprattutto dietro un nome inventato, di oltraggio in oltraggio, di dolore in dolore, banconota su banconota si era comprata il diritto di cancellare l’incubo nel quale era nata e vissuta e di girare pagina, avanzando passin passino in un mondo diverso, lontano, quieto, un po’ noioso, un po’ grigio, tanto tanto rassicurante e protettivo, un gratificante mondo femminile “di un certo livello”.

23 dicembre 2021 – © riproduzione riservata

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