Dal tramonto all’Albis

[di Ernesto Giacomino]

L’impressione è che sia stata una Pasquetta atipica, con più battipagliesi del solito rimasti a casa e bar e ristoranti aperti per centro e rioni come in un semi-feriale qualsiasi. E non credo che quest’anno la motivazione principale sia stata quella economica (per quanto diventi sempre più difficile, in questo giorno, tirarsi via un menu fisso tipo pennette/cotoletta/patatine a meno di trent’euro a cranio, o parcheggiare per un pic-nic senza un preliminare di vendita immobiliare con notaio e abusivo di turno).

Mi risulta più facile pensare, in verità, a una commistione fra tre fattori determinanti. Il primo, assoluto e incontrovertibile: previsioni meteo dilettantistiche, tirate via dall’urna del lotto dal famoso bambino bendato e però sbandierate – con una fierezza e una sicumera mai viste – come una minaccia di giudizio universale. Stando ai colonnelli dell’aeronautica avrebbe dovuto piovere, grandinare, esondare, alluvionare, bombatomicizzare; cosicché che ti vai a organizzare, meglio apparecchiare alla buona col casatiello e il vino a bricco nel punto più alto del palazzo, tipo il terrazzo condominiale, non sia mai un tardivo scatto d’orgoglio del Tusciano che proprio in vecchiaia si mette ad allagare strade. Poi s’è visto, no? Le uniche gocce d’acqua pervenute sono state quelle di tale signora Ofelia, al quinto piano d’un palazzo di via Roma, che ha sporcato il balcone di sotto mentre innaffiava i gerani. 

Il secondo fattore appare più imparentato con la consapevolezza, con la presa d’atto della realtà, con la definitiva constatazione che, alla fin fine, tutti questi paradisi tropicali e aree rupestri alla Grand Canyon, nelle vicinanze, non è che ce li abbiamo. La globalizzazione è anche quello, è trovarsi inquinamento e microdiscariche pure nella fantomatica natura incontaminata, è sperare di rilassarsi sulle sponde ciottolose d’un fiume e imbattersi invece in chioschi di bibite e caffè che organizzano karaoke e balli di gruppo. Ché sarebbe quasi ora, in verità, che noi battipagliesi evitassimo di farci ammaliare da qualunque paesaggio non sia il nostro semplicemente perché ha qualche chiazza di mare pulito o di pineta non bruciata.

Poi, vabbè, ci sarebbe il terzo fattore. Quello più attuale, moderno, alienante: l’aver compreso che in realtà, oggi, ovunque noi andiamo, non ci muoviamo d’un passo. Lo facciamo fisicamente, sì, magari pure in tuta da passeggio e scarpe da tennis, col vrum-vrum dell’auto in moto che macina chilometri: non mentalmente, però. D’occhi e pensieri restiamo lì, incollati a un display di tablet o telefonino, costantemente connessi col mondo dei social, delle serie tv, dello sport, della narrazione dei fatti che ci succedono intorno: veri o finti, comici o tragici, semplici o complicati. Roba, insomma, che puoi fare su un’amaca in un atollo polinesiano come restando sul divano in soggiorno. Il che fa sorgere il dubbio che – sempre, pure in passato – non ci siamo mai messi davvero in viaggio per godere d’un’altra aria, o profumo, o panorama, ma semplicemente perché lì, al chiuso delle nostre quattro mura, non avevamo niente da fare.

E adesso, invece, che di distrazioni ce ne sono a iosa, abbiamo capito che non ha senso trascinarcele per chilometri se ci manca il coraggio – almeno per una giornata– di abbandonarle a casa.

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