Cresta della Speranza

[di Ernesto Giacomino]

Finalmente ci siamo. Pali montati, luminarie appese, manifesti affissi… Ok, è ufficiale: si fa. Almeno quest’altr’anno, va’, poi si vedrà. Perché quella della festa della Speranza, a Battipaglia, da decenni è un’incognita capace di spiazzare il migliore fra tutti i geni della statistica. Non viene fuori da semplici calcoli probabilistici, ma da complicate equazioni di fisica quantistica elaborate direttamente da un gruppo di terminali elettronici coadiuvati dal Cern. E nonostante, da un po’ di anni, si stia ripetendo con una certa puntualità, resta sempre l’evento a sorpresa dell’estate.

Gli ambulanti, per dire, vanno in borsa e ci comprano dei “futures”, sulla festa della Speranza. Si tengono liberi per quei tre fatidici giorni di luglio, poi se va male si ripagano facendosi rimborsare in Bot e Btp. Non potrai mai dire a tuo figlio “guarda che se ti comporti male non ti compro il giocattolo alla festa patronale”, perché è una minaccia che sottintende sempre incertezza e lo farà crescere deviato (Luther Blisset, per dire, in realtà è proprio un movimento organizzato dai “complessati da mancata festa”). Anche i giostrai arrivano nello spiazzo con la doppia alternativa: stendono i pezzi a terra ma aspettano l’ultimo giorno: fumata bianca, e tirano su autoscontri e tagadà; fumata nera, e s’allestisce in un niente un capannone per la festa della birra. La cosa è ovviamente in partnership con i venditori di pannocchie: se tutto va male, sgranano le spighe e ne fanno popcorn.

Pare che gli stessi portatori della statua in processione, tra l’altro, abbiano spesso minacciato di scioperare per mancato preavviso: e no, così non si fa, qui c’è da far palestra almeno un mese prima, portatevela da soli. Con tutto lo strascico di disdette e disorientamenti dell’ultim’ora: carmelitani scalzi ai saldi di Bata, boys scouts a stendere le vecchiette che attraversano, diaconi verso i voti che rinnegano il seminario e si iscrivono a ragioneria.

Perché? Tutto per i soldi, dannati loro. Noi siamo l’unico Comune a non sapere, ogni volta, se possiamo permetterci o meno una determinata spesa. Arriviamo là, contiamo col lumicino, ricontrolliamo, spacchiamo salvadanai, facciamo collette in piazza: da un altro un tesoriere, dall’altro un ragioniere, allora? A quanto arriviamo? Boh! Aspe’ che mancano gli spiccioli e i gettoni del ’76, che dici: se li ricomprano, i francobolli?

Per una Salerno che accende luminarie sei mesi l’anno, noi non possiamo mai permettercele nemmeno per tre giorni. E quando succede, magari è part time: dalle dieci a mezzanotte, a turno fra via Roma e via Mazzini, ma se accendete quelle della parrocchia spegnete tutto il resto. E andateci piano con phon e scaldabagni, specie nelle ore di punta.

Che poi. Andare a una festa patronale con l’angoscia di non sapere con quale miracolo la si è fatta, ogni volta, ci mette tutti lì in una folla triste, surreale, instupidita: ma che fai? Applaudi al cantante? Ma dai che sembra brutto, con tutti i guai che abbiamo. Tant’è che pure per le strade, nell’incrociarsi con gli amici, anziché sorrisi e saluti ci si scambia un “tieni duro”, con tanto di pacche di incoraggiamento. Cosicché la sensazione di massima è sempre quella: che la festa ce l’abbiano data pur non meritandocela, che l’abbiamo estorta con un qualche stratagemma ricattatorio, che per non sentirci lagnare si sia dovuto rinunciare a cose ben più nobili e meritevoli.

Fortuna che, come ogni pesce e ospite che si rispetti, dura – tutto – solo tre giorni.

4 luglio 2013 – © riproduzione riservata

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