Corde | di Iole Palumbo

Guardai la curva del gel sull’unghia, brillava riflettendo la forma della luce che filtrava dalla finestra. Il cuoricino che avevo disegnato in una tonalità più scura aveva i contorni perfettamente definiti nonostante fosse così minuto. Lo accarezzai col polpastrello era liscio e freddo come una palla di un biliardo. Avevo terminato un piccolo capolavoro. Riposi la limetta nel beautycase e respirai, un senso di disprezzo mi pervase lo stomaco. 
Le mie mani avevano sempre suscitato l’invidia di quanti avevano posato lo sguardo su di esse senza bisogno di trasformarsi in artigli colorati. Erano morbide, lisce e affusolate grazie ad ore e ore di esercizi senza sosta. Avevo iniziato a suonare il violino da piccola, infischiandomene della scuola e della laurea. Il Conservatorio era stata la mia scelta obbligata contro il parere di mia madre che, lo sapevo per certo, ancora non me lo aveva perdonato. Del resto, il senso dei miei sacrifici lo ritrovavo negli occhi di chi mi era di fronte quando suonavo. Sentivo le note vibrare all’interno. Le mie dita cominciavano a correre sulle corde e il mio rapimento diventava il loro rapimento. Ero una bambina taciturna e introversa, ma con la musica comunicavo tutto ciò che avevo dentro. Era il mio corpo a parlare in un trasporto simbiotico con l’archetto da una parte e lo strumento dall’altra.
Eppure da tre anni il mio violino giaceva sepolto nella sua custodia. I miei calli erano stati ricoperti da lunghissime unghie di plastica. Ero dovuta tornare a scuola per imparare a farle così! Nove mesi di corso e di corse, cominciate quando mio marito, sedotto dalla sua vicina di scrivania, aveva smesso di credere alle favole che avevo raccontato anche a me stessa sulla possibilità di diventare una violinista di professione e aveva cominciato a reclamare un aiuto economico per la famiglia. 
Ci avevo provato. Ma al paese era differente, mi conoscevano tutti e mi chiamavano alle feste, alle sagre e ai matrimoni. Non era il massimo, ma riuscivo a rapportarmi con lui alla pari. Ora che stavamo fuori le cose giravano male. Ci eravamo lasciati allettare dall’aumento del suo stipendio e dalle prospettive di celebrità per me. Purtroppo la favola era finita con lui che aveva trovato un nuovo amore ed io che provavo a decorare unghie in un salone di bellezza. Me ne ero accorta subito della sua distrazione e non ci avevo messo molto a trovarne la causa nel telefonino. Ero anche partita al contrattacco: vestiti nuovi, capelli ondulati e sorriso smagliante. Sotto il trucco, però, dieci anni di differenza non potevano essere annullati e mi ero rassegnata. 
Oggi tutto mi tornava prepotentemente nella testa. Presi le forbici e recisi con forza quelle sporgenze sulla mia mano. Potevo finalmente premere le mie corde. Scesi nell’androne e cominciai a suonare: ora ero libera di regalare attimi di felicità con la mia musica a chiunque mi avesse prestato il suo orecchio.

6 novembre 2020 – © Riproduzione riservata

Facebooktwittermail