Compagnia delle Indie
[di Ernesto Giacomino]
Calvario Treofan, atto ennesimo. Stavolta, dopo i tentativi di Di Maio di quand’era al Ministero del Lavoro, interviene il premier Conte. Ha accettato l’invito a incontrare i delegati, ha ascoltato, ha promesso una telefonata ai proprietari indiani: gente che, ricordiamolo, ha deciso di chiudere uno stabilimento che creava profitti e mettere per strada decine di famiglie solo per guadagnare qualcosa in più. Gente che s’è fatta beffe delle istituzioni italiane, ha disertato tavoli di trattativa, ha mortificato i dipendenti offrendo incentivi all’esodo da fame. Certo, una telefonata è meglio di niente, ma aleggia il dubbio che non servirà.
Ove ce ne fosse stato bisogno, questa vicenda è l’ennesima riprova di quanto Battipaglia, negli anni, sia divenuta campo di facile raccolta per imprenditori senza scrupoli. Storicamente, quasi tutti i passaggi di proprietà delle aziende locali dagli azionisti originari a nuovi investitori (specie esteri) hanno portato inevitabilmente al ridimensionamento, alla chiusura, alla perdita di posti di lavoro. E solo raramente per reali cali produttivi legati all’andamento del mercato: molto più spesso, semplicemente per ingordigia.
Un disegno che appare fin troppo letto e abusato: acquisto (quasi sempre a un prezzo inferiore al reale valore dell’azienda), rallento scientificamente la produzione, licenzio, smantello, rilocalizzo (o accorpo, fondo, fitto). Movimenti rapidi quanto dolorosi, per i quali non si individua alcuna logica imprenditoriale se non un interessato spostamento di ricchezza e benessere da un territorio a un altro.
Lontani, ormai (e, per le nuove leve, addirittura difficili da immaginare) gli anni in cui questa città era un solido corpo dalla doppia anima, agricola e industriale, che sapevano sposarsi alla perfezione e distribuire ricchezza, sviluppo e occupazione. Erano tempi con altri uomini, altre priorità, altri principi morali. Chi investiva quaggiù contraeva, in termini di sussidi e agevolazioni, un debito con la comunità che non perdeva tempo a ripagare. O, più spesso, a sopravanzare.
La telefonata a Jindal sarà un tentativo, e ben venga. Ma il comportamento del gruppo indiano nei confronti delle legittime pretese di chiarezza da parte del governo italiano ha già abbondantemente travalicato i confini della correttezza. E la questione è ben oltre il semplice confronto privato tra parti sociali. Sul versante etico, in realtà, in questa contrapposizione non ci sono imprenditori da un lato e lavoratori dall’altro, ma ci sono due Stati: uno che vuole profitti, l’altro spiegazioni. Appurato, allora, che la deontologia del “padrone” non contempla alcun riguardo nei confronti del benessere sociale dei suoi lavoratori nostrani, sul versante italico non può esserci alcun’altra linea di mediazione se non l’alternativa tra un’incentivazione alla rioccupazione o un (pesante) sanzionamento economico in caso di condotta diversa. Sul come, e beh, fidatevi: i governi sanno come fare.
Tutto, insomma, a questo punto, purché sperare nel buonsenso. Telefonata sia, ma severa e categorica. Perché se davvero si arriva a mettere il capitale al di sopra delle vite umane, allora restano solo due strade: rieducarci, o estinguerci.
6 dicembre 2019 – © Riproduzione riservata