C’era vita nelle “comprese”

[di Daiberto Petrone]

L’iniziativa del nostro giornale in collaborazione con l’ultracentenaria Cassa Rurale ha il merito di riportarci indietro nel passato, che è un tempo nel quale  ci sono anche quelli che ci hanno lasciato  e con i quali abbiamo condiviso gran parte del nostro cammino da adolescenti nel microcosmo delle “comprese”.
Per dirla alla Totò, “io vi nacqui” in una Domenica delle Palme della prima metà del secolo scorso, nell’allora piazza Duchessa d’Aosta, nella compresa numero 114 dove, a piano terra, per tanti anni lo zio Fabrizio ha svolto la sua attività di artigiano e dove, successivamente, le signorine Petrone hanno tenuto a ripetizione quasi tutti gli alunni che abitavano nelle comprese.
La retrospettiva assume un profondo significato simbolico perché la comunità battipagliese, sorta attorno all’originale nucleo dei “compresi”, ha perso nel tempo valori, impegno sociale, identità culturale.
Quando mi è stato chiesto di collaborare nella ricerca delle famiglie che nel dopoguerra occupavano le comprese, ho cercato  i miei quasi coetanei che, come me, hanno trascorso la loro infanzia in quei luoghi. La risposta è stata immediata e il loro contributo in alcuni casi determinante. Tacendo dell’apporto robusto dei miei fratelli, hanno collaborato a riempire i vuoti della memoria Mario Carucci, Tonino Francese, Annetta Nunziata, Radames Petrone. La disponibilità nel contribuire a riempire le caselle vuote del grafico dell’insediamento originario è stata così sollecita e direi affettuosa da restituirmi forte il senso dell’appartenenza  e della contiguità non solo da “vicinato”: ho recuperato un legame non formale ma permeato di percorsi comuni,  di condivisione di esperienze parallele,  pieno di ricordi di volti, vicoli, cortili,  scuola, negozi – luoghi dell’anima – che hanno connotato l’infanzia e l’adolescenza di tanti di noi.
Ma torniamo ai miei personali ricordi; certo se ne affollano tanti, ma un recente racconto di Erri De Luca ha richiamato alla memoria, anzi, più che alla mente, al naso, gli odori delle cucine che si affacciavano nei cortili interni delle comprese. Dal profumo di buon cibo che veniva dalle case, infatti, era possibile sapere tutti i giorni cosa si portasse in tavola in ogni famiglia. Quando, dopo il trasferimento nella contigua via Francesco Turco, attraversavo i cortili  per recarmi in piazza della Repubblica, a casa della nonna paterna giungevano alle narici profumi di ogni sorta, di soffritti, di broccoli, di fumanti zuppe di baccalà, o meglio, di patate e baccalà. L’obbligo domenicale della messa, preceduto all’altrettanto obbligatoria visita alla nonna, avveniva tra effluvi di odori che si confondevano nel passaggio da un fuoco all’altro; la prevalenza era senz’altro del ragù, “rraù’” in lingua e palato locale. Non meno pregnante era l’odore della “genovese” che, come tutti sanno, ha a che fare con le cipolle e con Napoli piuttosto che con Genova.
In questa atmosfera da Expo ante litteram, in un decumano lungo pochi  metri, gli odori delle cucine rappresentavano un elemento identitario, affatto secondario.
Oasi felice della mia adolescenza vissuta nel ventre protettivo del microcosmo delle comprese, quasi un’enclave,  una piccola isola all’interno di un paese in continua espansione (su come si sia “espanso” caliamo un velo pietoso).
Le comprese hanno segnato profondamente coloro che vi hanno abitato; dopo tanti anni ho capito perché mio padre – dopo il trasferimento in una cooperativa in viale della Libertà – quando usciva di casa diceva a mia madre “Agné vac’ a Battipaglia”.
Ci sarebbe ancora tanto da scrivere e forse lo spunto tratto da Il più e il meno di Erri De Luca è stato fuorviante; tuttavia resto dell’idea che la storia di un paese passa anche attraverso gli odori dei cortili, i profumi delle paste al forno, degli struffoli e delle pasticelle, che  connotano,  quanto e forse più di altro,  l’anima di una comunità.

28 dicembre 2015 – © Riproduzione riservata
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