Anche per te | di Simone Rocchi

Suonarono alla porta che era tarda serata. Il chiarore di casa mia inondó il giardino, proiettando a terra due ombre lunghissime.
Lei aveva la faccia di chi fugge, il bambino indossava un pigiama e una maschera come il ragazzino di Un Mondo Migliore, quel film con Kevin Costner che avevo visto anni prima. Ebbi la sensazione che non avessero bussato ad altre porte, e mi chiesi perché proprio alla mia, perché io. Doveva essere il giardino, mi dissi. O forse esiste un simbolo invisibile sui muri di chi è solo, che chi è in fuga riconosce al volo.
Non ricordo nemmeno se lei disse qualcosa per presentarsi, solo che li feci entrare. Proprio allora, in giorni in cui tutti parevano starsene alla finestra a scandagliare i passanti; a chiedersi dove andassero, cosa potessero avere di tanto urgente da fare, tutti, da non potersene stare sul divano.
Ricordo come fosse oggi il senso di impotenza della luce del frigorifero quando lo aprii; il senso di precarietà nel preparare il divano letto; il vuoto, dietro il saluto, quando salii le scale per andare a dormire. Non chiusi occhio. Li ritrovai la mattina, in cucina; oltre la vetrata una fioca luce prometteva l’alba. Lei stava preparando il caffè: «Deve andare a scuola». Annuii senza dire nulla, interrogandola con gli occhi. «Io starò in chiesa». Li guardai prendere il vialetto. Avevano lasciato alcune monete sul mobile all’ingresso. Il bambino non aveva usato il bagno, lei non si era nemmeno guardata allo specchio.
Sperai che tornassero.

5 dicembre 2020 – © Riproduzione riservata

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