Agoràbbia

[di Ernesto Giacomino]

Succedeva anche ai miei tempi. Questo fatto delle assemblee di classe, voglio dire: inizialmente tutti spinti da nobili intenzioni, poi uscivano fuori le fazioni contrapposte, le urla, le perdite di tempo.

Ché c’è poco da nasconderlo: vero è che si trattasse di opportunità uniche di confronto senza l’angustia d’essere interrotti da una lezione o interrogazione, ma non si disdegnava mai l’idea – fisiologica, a quell’età – di buttarla allegramente in caciara.

Le correnti in aula erano essenzialmente quattro: c’erano gli ignavi, cioè quelli che frequentavano da anni ma ancora non avevano capito dove si trovassero, che ogni mattina osservavano mura e compagni con occhi persi nel vuoto come fosse il primo giorno di scuola. Individui che, è chiaro, che in quelle due ore ci fosse stata assemblea, o lezione, o uno spettacolo circense con i bradipi del Nicaragua, non avrebbero comunque proferito parola o mosso una pupilla.

A seguire, un classico: i nullafacenti. Il solito gruppuscolo cui fregava poco del perché non si facesse lezione: drin, campanella suonata, inizio assemblea, loro fuori per l’intera durata. A fumare, girare per i corridoi, intrufolarsi nel campetto da basket durante l’ora di educazione fisica di qualcun altro.

Le ultime due correnti, invece, quelle attive, quelle che partecipavano e discutevano e si scontravano, erano, rispettivamente, i pragmatici e gli idealisti. I primi si focalizzavano sui problemi spiccioli della classe: i metodi discutibili d’un insegnante, il buco nel vetro della finestra riparato a carta gommata, il termosifone che perdeva acqua, la lavagna da cambiare. Qualche proposta di studio o aggregazione, pure: una gara di scomposizione di polinomi, per dire, o la simulazione d’una giornata-tipo d’un ufficio amministrativo di una multinazionale; un week end sulla neve, autofinanziato, con partecipazione mista di studenti e professori.

Si contrapponeva, però, al team dei pratici, quello degli idealisti. Quelli che, al diavolo i problemucci locali della tapparella storta o i gessetti riciclati, in cattedra ci salivano a portare questioni di ben altro spessore: la svalutazione della lira, ad esempio. O la disoccupazione, la droga, il conflitto Israele-Palestina. Ricordo in particolare un’assemblea, in una tarda primavera del quarto anno: era appena accaduto il disastro di Chernobyl, loro proposero di girare per l’istituto e coinvolgere le altre classi per poi, l’indomani, scioperare e riunirsi in un corteo di protesta contro il nucleare. Ché me l’immaginavo, io, l’eco internazionale di cotanta manifestazione da tenersi tra via Italia e piazza Ferrovia: il terrore dei governanti dell’intero mondo, proprio, destabilizzati da tutto ‘sto messaggio di sdegno d’un centinaio di studenti delle superiori di Battipaglia. Che pure da Chernobyl, era certo, sarebbe arrivato qualche comunicato di scuse del tipo: abbiate pazienza, s’è festeggiata un po’ rumorosamente una vittoria della Dinamo Kiev ma mo’ corriamo ai ripari. A voi, piuttosto, a scuola, ve le hanno riparate le tapparelle?

Insomma, ripeto: argomenti fuori tema, interventi goffi, arrampicate sugli specchi, assenteisti cronici. Era così anche allora, dovremmo stupircene solo perché ora si chiama Consiglio comunale?

8 aprile 2023 – © riproduzione riservata

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