Affari tuoi
[di Ernesto Giacomino]
Niente da fare, la compattezza di una comunità la vedi anche dal come ne si conoscono le storie dei singoli. Non di tutti, chiaramente: di quelli più in vista, più “rumorosi”, più attenzionati. Spesso, più soli. Per dire: di quell’uomo sul corso di Salerno, che per anni ha stazionato davanti agli uffici della sua ex azienda urlando ai passanti le traversie che l’avevano condotto alla perdita del posto di lavoro, i concittadini sapevano tutto. Nome e cognome, parentele, titolo di studi, curriculum. Lo salutavano con affetto, gli tenevano compagnia, sedevano con lui a conversare. Erano la sua grande famiglia allargata.
Da bambino, nelle mie estati ad Agropoli, vagava per il centro un personaggio pittoresco che, a chi non era del posto, poteva fare paura. Ma bastava poco per trovare chi ti insegnava a conoscerlo, te ne raccontava le disavventure, ti accompagnava a chiacchierare con lui. E scoprivi una persona d’una bontà e semplicità disarmanti, con una famiglia presente alle spalle e il supporto affettivo di tutto il paese.
E così capita un po’ ovunque in tanti comuni del circondario, sulla costa e in campagna, in lungo e in largo, dai Picentini alle piramidi e dal Manzanarre all’Irno.
A Battipaglia, invece, fateci caso, non tanto. O forse per niente. Qui come altrove conviviamo anche noi con storie di disagio e inadeguatezza, di disperazione convertita in bizzarria. Di giovani e meno giovani, uomini o donne, portatori di disabilità psichiche e giocoforza – com’è nelle insulse ma tenaci tradizioni da “villaggio” – assurti a elemento di folclore locale per il loro comportamento anticonvenzionale.
Eppure, a differenza di altre realtà confinanti, il grosso della comunità battipagliese non potrà mai dire di conoscerli davvero. Di parecchi se ne ignora il cognome se non addirittura il nome di battesimo; raramente ci interessa sapere se abbiano una famiglia a casa, o proprio una casa, e un piatto a tavola dentro quella casa, e in quale strada o vicolo o anfratto possa essere ubicato il tutto. Sull’origine del loro disagio ciascuno ne conosce e racconta una storia diversa, spesso rasentando la surrealtà delle leggende metropolitane: “no, è così perché è un ex marine vivisezionato con le scie chimiche nell’Area 51”, “è colpa di un overdose di latte e menta”, “il padre era emigrato in Germania ma comunque lo bastonava per raccomandata”.
Perché per noi è sufficiente il loro lato ludico, goliardico: le stranezze in strada, il “dargli a parlare” mentre siamo in comitiva per sentirne risposte sconnesse con cui rallegrarci la serata. Bastano i selfie e i videoclip con cui s’immortalano o si lasciano immortalare per farne condivisioni sui social e divenire a loro insaputa piccole star locali: scevri, loro, da qualunque egocentrismo, ma strumento incolpevole per chi non ha altro di meglio per ingannare il tempo.
Sappiamo ciò che vediamo, non ci interessa altro. Magari, a provare a parlarci quell’attimo in più – seriamente, solo per conoscerli meglio – qualcuno di loro si tirerebbe indietro o darebbe risposte poco credibili. Ma credo che tanti, invece, avrebbero una lunga storia da raccontare: forse terribile, forse romantica, forse anche un po’ comica.
Quel che è certo, è che non vorrebbero altro che qualcuno – per una volta – si fermasse davvero ad ascoltare.
14 giugno 2025 – © riproduzione riservata


